Arte Africana                                                                     www.africarte.it

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COMUNE DI ASTI

 

Battistero di San Pietro in Consavia

 

 

 

 

                                   

 

AFRICA  in  FORME

Trasformazioni del corpo femminile

nella scultura africana

 

Le opere esposte provengono tutte da collezionisti privati

 

a cura di 

Bruno Orlandoni


16 Maggio - 6 Agosto 2008

 

Auguri

 

                                                                                              Marcello Lattari

 


 

 

REPORTAGE   FOTOGRAFICO

Recensione di Marcello Lattari

 

 

 

Comunicato stampa

        Invito           

     Presentazione   

   Alcune Opere   

 

 

 

presentazione

 

 

 

 

NOTA SULLA SCELTA DELLE OPERE

(riduzione dal catalogo della mostra)

a cura di 

Bruno Orlandoni

 

La scelta delle opere da presentare in mostra è stata vincolata da due condizioni fondamentali. La prima era insita nell’idea che stava alla base dell’operazione: presentare al pubblico un esteso repertorio di opere africane di qualità, appartenenti a collezioni private, inedite. La seconda era legata al tema proposto: la donna. Questo aveva la funzione principale di favorire una drastica riduzione del campo di scelta, facilitando l’operazione. Il serbatoio in cui operare, costituito da migliaia di opere dei tipi e formati più diversi, si riduceva così di quasi tre quarti. La scelta di escludere qualsiasi accessorio relativo alla donna (abiti, oggetti d’uso femminili, ecc.) e di escludere ogni riferimento di tipo sociologico al problema, riduceva ulteriormente il campo, rendendo l’operazione più semplice, praticabile nei tempi proposti dalla committenza. Il tema “donna” veniva così progressivamente mutato nel tema “corpo femminile”, nell’intenzione di evitare ogni tentazione di lettura politica e di sottolineare, invece, che il soggetto è affrontato esclusivamente sotto il profilo formale, in una dimensione tutta interna al fatto artistico e alle sue pertinenze, siano esse pertinenze antropologiche o di sociologia dell’arte oppure problematiche stilistiche e linguistiche.

Un terzo vincolo, infine, era costituito dall’ambiente in cui esporre le opere. Lo straordinario prestigio formale del complesso monumentale di San Pietro ad Asti costituiva a un tempo un formidabile stimolo e un preoccupante onere. Il problema era quello di dialogare con la qualità dell’ambiente senza lederla o cercando di lederla nella minor misura possibile. L’ambiente suggeriva comunque un tetto quantitativo alle opere da esporre che si decideva di fissare attorno ai 200 pezzi circa, il 70% dei quali di piccolo formato.

Dati questi parametri iniziali, l’operazione di scelta si è articolata secondo alcune direttrici fondamentali.

Il modo più ovvio per impostare la definizione formale dell’oggetto della mostra è parso quello di descriverlo in opposizione ad altri, più o meno simili, in modo da farne emergere le caratteristiche, i dettagli, le specificità. Così il modo più immediato per aprire il discorso definendo la forma artistica del corpo femminile nell’arte africana è parso quello di metterla in opposizione alla forma artistica del corpo maschile.

COPPIE. Nel caso della scultura africana, l’operazione è favorita dal fatto che praticamente presso ogni etnia, esiste la tipologia specifica della coppia, sia essa intagliata in legno o in avorio, o modellata in terracotta, oppure fusa in bronzo o battuta in ferro. Nella resa specifica della dicotomia maschio/femmina, l’arte africana si muove secondo i ritmi più diversi. Di fronte a quella articolata serie di varianti, che anatomisti e specialisti di diversi settori hanno catalogato come “caratteri sessuali primari” e “secondari” troviamo le soluzioni più estreme e tutte le loro varianti intermedie. Corpi identici, in cui l’unica varianza è ridotta alla presenza di un’appendice – spesso minuscola – tra le gambe maschili, e di un forellino o di un taglio tra quelle femminili (con o senza la presenza di due pallini sul petto in veste di seni), come nelle terrecotte mambila (n. 2 e 4) o dakakari (n. 6), nelle figurette zande (n. 8), nei bronzetti senufo (n. 9). In alcuni casi – come proprio nei bronzetti senufo - l’unica differenza anatomica (la presenza dei seni femminili) è confermata dalla presenza di oggetti portati come attributi: così il vaso sarà attributo femminile in molte regioni dell’arte africana, mentre ai maschi – guerrieri e cacciatori – sono affidate armi (asce, coltelli) o bastoni di comando. A volte a queste differenze minime si sommano delle varianti tecniche di difficile spiegazione. Nelle figure lengola (n. 1), per esempio, le donne hanno le braccia innestate all’esterno delle spalle, gli uomini le hanno al di sopra. All’estremo opposto di queste rese minimaliste, troviamo esempi in cui l’artista si lancia nella rappresentazione dei più sfumati caratteri sessuali secondari, come nel caso delle figure Dan (n. 17), o ancor più in quello dei deblé Senufo (n. 14) in cui sono rese in maniera efficace le differenze tra altezza e rotondità delle natiche, squadratura delle spalle, verticalità della colonna vertebrale e presenza o meno di una leggera lordosi.

Spesso, gli esseri raffigurati sono soprannaturali e si pongono come veri e propri archetipi nei confronti degli umani. In questo senso, il fatto che spesso la differenziazione non tenga conto dei volti – rigorosamente uguali – come nel caso dei guardiani di villaggio lengola (n. 1), dei “feticcini” perlinati bamoun (n.5) o degli antenati gurunsi (n. 10) sembra assumere significati addirittura programmatici. Quasi a voler significare che non sono le differenze di tratti somatici a determinare la sostanza della differenza tra maschio e femmina. Così, nel poggiatesta luba o prebembe (n. 11) la quasi totale identità delle due figurette è mitigata solo da piccoli seni nella figura femminile e ribadita da un’unica scarificazione sul fianco, che cita in maniera abbastanza esplicita l’organo sessuale.

ILCORPO AMBIGUO: BIFRONTI, FIGURE GIANIFORMI, ERMAFRODITI. Sia che le figure risultino differenziate con chiarezza, sia che le varianti attengano al limitatissimo campo del segnale, è evidente che l’artista africano nei confronti della rappresentazione del corpo umano assume spesso un atteggiamento astratto. Ciò attiene al fatto che al di là delle identità personali, uomini e donne, maschi e femmine, vengono spesso assunti nella loro natura universale, simbolica, come personificazioni di principi generali reciprocamente connessi. Ciò dà luogo in molti casi a raffigurazioni molto particolari: i bifronti.

I casi più comuni si trovano nella scultura del Burkina Faso presso diverse etnie e in particolare presso i Lobi, e in Congo soprattutto presso le popolazioni del sudest, in particolare tra gli Hemba. Presso gli Hemba, anzi, gli elementi decorativi bicefali a testa doppia, maschile (barbuta) su un lato e femminile sul lato opposto, sono presenti su una grandissima varietà di attrezzi, arnesi, oggetti: dai bastoni processionali, ai poggiatesta, agli oggetti magici.

Spesso la figura bifronte è risolta nella maniera più immediata tramite l’adesione schiena a schiena di due figure umane, stanti, quasi complete, come nei casi della kabeja makua hemba (n. 21), del grande palo lobi (n. 33), o del feticcio teke (n. 25). A volte le due figure possono essere inginocchiate o accosciate (n. 22). Più raramente le combinazioni possono essere più particolari, realizzate tramite l’accostamento di due metà, sinistra/destra maschio/femmina come in alcune sculture lobi (n. 28, 29). Tra i Lobi a volte si trovano intrecci anche a tre figure, di notevole complessità (n. 37). In altri casi ancora, più semplici, più che figure bifronti troviamo delle figure che sarebbe più corretto definire semplicemente bicefale consistenti in un corpo, maschile o femminile, su cui vengono innestate due teste fianco a fianco, come nell’arpa mangbetu (n. 154), oppure davanti e dietro. Tra i Lega (n. 44, 47, 48, 49, 50) le teste si moltiplicano e su un’unica testa possono apparire più nasi e più bocche (n. 41, 43) in un gioco di moltiplicazione che ritroviamo nell’arte orientale o nelle droleries dell’arte medievale. E ancora l’arte orientale torna alla memoria di fronte alla rara soluzione quadrifronte della donna con coppa luba (n. 52).

In alcuni casi l’ambiguità si combina in una figura unica dando luogo a veri e propri ermafroditi. Seppure rari, sono comunque più diffusi nell’arte africana che presso altre culture figurative. Frequenti, poi, i casi in cui l’ambiguità si risolve all’interno di un’unica figura, nell’assoluta impossibilità di definire il sesso. E’ il caso di quasi tutte le teste biery dei Fang (n. 39, 40) come di molte figure mumuye. Quella che esponiamo (n. 64) può forse ricondursi ad un genere femminile perchè in ambito mumuye sono solo le donne a deformarsi i lobi degli orecchi. Spesso questa ambiguità raggiunge il culmine nella rappresentazione dei volti. Prescindendo dalla presenza di segni distintivi utili a definire il genere, si deve osservare come spesso volto maschile e volto femminile siano raffigurati secondo canoni pressoché identici. Molte figure tabwa, (n. 61, 62) pur di notevole raffinatezza compositiva, sono difficilmente qualificabili sotto il profilo sessuale. Così le ricerche più recenti affermano che le maschere bianche del Gabon, considerate “femminili” dalla critica occidentale, in realtà possono essere anche maschili (n. 73 – 76). Anche la presenza o meno della barba, che spesso è una delle forme di varianza più immediata ai nostri occhi, non sempre è sufficiente a definire sessualmente le entità rappresentate dagli artisti. Così esponiamo alcune figure femminili in cui la presenza di labret o ornamenti labiali (n. 67, 275) di vario genere e tipo o di vere e proprie barbe finte (n. 68, 70), pone problemi di interpretazione che spesso possono nascondere autentici risvolti “politici”, relativi alle funzioni e ai ruoli di potere esercitati dai personaggi rappresentati.

Ambiguo anche il problema della resa delle ernie ombelicali, presenti con enorme frequenza nelle figure umane africane, e di solito rappresentate in maniera un poco più accentuata (ma non sempre) nelle figure femminili, fino a diventare una sorta di contrappeso visivo dei seni (n. 84 e foto di copertina).

IL CORPO COME TERRITORIO. L’arte spesso è stata intesa e usata anche come strumento privilegiato di visualizzazione del simbolico. Anche la rappresentazione di ciò che ci appare come più naturale, il corpo umano, può assumere valori e significati meno ovvi e naturalistici di quanto una prima osservazione non sembrerebbe suggerire. Così presso alcune culture – nella fattispecie fra i Luba – il corpo, e in particolare spesso proprio quello femminile, in quanto corpo dell’antenata progenitrice, diventa una complessa metafora del territorio antropizzato (n. 114, 118, 120, 122). Più spesso ancora il corpo viene annesso agli oggetti d’uso più diversi, dai pettini (n. 45, 46, 62, 153, 152, 237), agli strumenti musicali (n. 97, 154, 263), ai cucchiai (n. 86, 93) e ai contenitori (n. 95, 219, 254), ai sedili (n. 99, 223, 259, 262), in un’operazione che a prima vista potrebbe apparire una disumanizzante oggettualizzazione del corpo umano, e che invece, spesso, è l’operazione opposta, di umanizzazione dell’oggetto d’uso che in questo modo viene annesso alla dimensione familiare del quotidiano.

DECORAZIONI E ACCONCIATURE. Come il territorio antropizzandosi si trasforma attraverso l’intervento della cultura sulla natura, così il corpo umano – spesso proprio quello femminile più di quello maschile – crescendo, cioè entrando nella società degli adulti, viene trasformato dalla cultura attraverso l’imposizione di un’ampia serie di segni. La scultura africana registra in maniera efficace la complessa trama di segni a rilievo – scarificazioni e cheloidi – di cui il corpo si riveste nel corso dei riti di iniziazione e di passaggio di età. Anche in questo caso funzioni (e forme) e significati mutano nei luoghi e nel tempo. Le complesse trame delle scarificazioni che decorano le sculture lulua (n. 134, 135, 136, 137) erano già scomparse dai corpi di uomini e donne Lulua quando questi vennero raggiunti dai primi occidentali, poco dopo la metà dell’Ottocento. Lo stesso per i Mangbetu che conservavano solo più l’uso di deformare i crani dei neonati allungandoli (n. 154, 155). Ancora oggi invece, presso alcuni gruppi – per esempio gli Yoruba – la forma della scarificazione veicola espliciti significati di appartenenza, tribale, clanica, familiare, di classe, di età. Presso altri ha valenza esclusivamente estetica: presso gli Hemba, per esempio, sembra che la pratica della scarificazione reciproca tra maschio e femmina rientri nell’ambito di un esplicito gioco erotico di coppia. Anche segni di dolore e di malattia, quanto mai frequenti in Africa, possono trasformarsi in trame decorative. Così i chiodi che costellano corpi e volti di molte sculture songe (n. 80, 264) non rappresentano cheloidi, ma le tracce delle pustole del vaiolo.

Al di là della loro registrazione nella scultura, non bisogna poi dimenticare come la stessa pratica delle decorazioni a cheloidi sia in fondo una vera e propria forma di scultura sul corpo che riconferma – se ce ne fosse bisogno – quanto il talento artistico africano sia prima di tutto talento scultoreo, plastico.

Accanto alle scarificazioni si notano le acconciature, di straordinaria complessità e bellezza. La scultura le rende con raffinata precisione, spesso senza inventare nulla, solo riproducendo quelle che sono già di per sé straordinarie sculture o bassorilievi. E così ecco un apparire e moltiplicarsi di trecce e treccine (n. 212, 276), chignon (n. 145, 172), finte corna allusive ad animali scelti come simboli di potere (n. 68, 185), autentici cimieri realizzati con capelli riportati o complesse intelaiature di fango e stecchi (n. 138, 150), fino ad arrivare al kaposi, l’acconciatura crociata portata da uomini e donne Hemba (n. 143, 177) che è un autentico cosmogramma simboleggiante le direzioni dello spazio e del mondo.

GESTI E POSIZIONI. Un ulteriore capitolo che si è ritenuto opportuno documentare è quello della varietà di gesti registrati. Capitolo relativamente limitato. L’arte africana è da un lato fortemente convenzionale, da un altro lato è tendenzialmente espositiva e affermativa e molto poco narrativa. Le posizioni documentate, i gesti, gli atteggiamenti, sono quindi pochi. Si può affermare che un buon 70% delle sculture africane note rappresenta la figura umana nuda, in piedi, di solito l’uomo con le mani sul ventre, la donna con le mani sul seno. Un altro 25% di sculture rappresenta uomini e donne seduti in trono, oppure accovacciati o inginocchiati (in quest’ultimo caso soprattutto le donne). Nel rimanente 5% (ma forse anche meno) si concentrano tutte le altre possibilità di gesto o posizione: figure con le mani sul capo (n. 245, 246) o portate al mento (n. 248), figure sedute a terra (n. 219), figure equestri. Rarissime le figure voltate (n. 267) o più o meno ruotate, perché l’arte africana rifugge dalle asimmetrie; e altrettanto rare le vere e proprie “scene” (n. 204, 270). Quasi unici i pezzi che documentano altre situazioni: come il bracciale a forma di ballerina che compie l’arco dorsale (n. 268), che in Piemonte non potrà non riportare alla memoria quello che è uno dei gioielli del Museo Egizio di Torino: l’ostrakon dipinto con una ballerina raffigurata nella stessa posizione.

IL CORPO ASTRATTO, IL CORPO CONCRETO. Intersecando questi passaggi più o meno articolati, la scelta si è sviluppata poi nell’intenzione di presentare il maggior numero possibile di varianti formali del tema primario: la donna; dalle soluzioni più astratte dell’arte chamba (n. 107), dogon (n. 102), bamana (n. 94), metoko (n. 108), a quelle più espressioniste proposte dalla scultura songe (n. 156-162), bangwa (n. 222), kuyu (n. 307), a quelle di quel naturalismo idealizzato, che potremmo quasi definire classico in ambito africano, della produzione yoruba (n. 199-203), kongo (n. 280-285), luba (n. 180), baule (n. 192).

MATERNITA’. Conclusione per molti versi necessaria, vista la frequenza del soggetto, una rassegna di maternità che, dato il loro palese significato anche politico – la madre in Africa è spesso colei attraverso cui passa il potere – possiamo dire stare all’insieme dell’arte africana come le Madonne con bambino sono state all’insieme dell’arte cristiana europea. A proposito delle maternità si potranno fare alcune osservazioni conclusive. La prima è che i bambini, in quasi tutte le maternità, non sono qualificabili sotto il profilo sessuale. Sono asessuati. Il bambino non è né maschio né femmina, né uomo, né donna. In Africa uomini o donne non si nasce, ma si diventa; e si diventa tali solo con i riti di passaggio e di iniziazione. La seconda è che l’assoluta ieraticità, la compostezza, la maestà che caratterizza le figure adulte, nelle figure dei bambini scompare e lascia posto ad una grande varietà di posizioni e di piccoli gesti. Ciò, da un lato, sembra significare che il diventare adulto obbliga l’individuo a selezionare, scegliere, limitare i gesti attraverso cui presentarsi e proporsi al prossimo. Da un altro lato è testimonianza del fatto che la limitatezza di gesti e posizioni dell’arte africana non è la conseguenza di limitate capacità espressive. Al contrario è un’esplicita scelta di linguaggio: un vero e proprio canone comunicativo come nel caso dei kouroi greci, o dei faraoni egiziani, racchiusi nei margini ristretti di una loro gestualità misurata e controllata.

 

Questo il percorso della mostra. I poco più di duecento oggetti esposti sono la selezione effettuata – come si è detto – all’interno di un serbatoio molto più ampio. A parte qualche presenza forzata dall’importanza concettuale degli oggetti, i parametri fondamentali che hanno direzionato le scelte sono stati la qualità formale delle opere e in alcuni casi la loro palese importanza storica. Nella mostra si troveranno alcune opere attribuibili con buon margine di sicurezza a scultori e atelier già individuati e studiati dagli specialisti del settore o altri capolavori riconducibili ad ambiti di una certa rarità. Così si può andare dagli ibeji yoruba attribuibili ai vari Onamosun di Iperu, Adugbologe, Bangboye, Esubiji (nn. 199-203), alla figura di antenato luba – che esponiamo perché raffigurante quasi di certo un ermafrodito, oltre che per la qualità – del cosiddetto “maestro dei Kunda” (n. 66), alla maschera Ivili riconducibile ad un atelier operante prima del 1867 in Gabon (n. 73), alle due opere attribuibili a quello che è di certo il maggior artista kuyu fin qui documentato (nn. 16 e 307), allo sgabello e al bastone di comando attribuibili ad uno dei più raffinati atelier operanti in un’indefinita area di confluenza tra Songe e Luba (nn. 126, 262), alla figura di antenata attribuibile ad un altro raffinatissimo atelier songe (n. 160). Per la loro rarità si possono segnalare l’antenata buyu (n. 70), il portafrecce sankadi (n. 234), la donna seduta a terra idoma (n. 219), il bifronte teke (n. 25), la sedia a cariatidi e schienale di area luba (n. 223-224), tutti oggetti riconducibili a tipi di cui si conoscono pochissimi esemplari. Sotto il profilo della pura qualità artistica vanno segnalate tra le altre la maternità tumbwe (n. 271), la figura mumuye (n. 64), la coppa koro (n. 90), le antenate hemba (nn. 175 e 185) e l’altra antenata luba o hemba con coppa e ascia sulle spalle (n. 180), la coppia di deblé senufo (n. 14), la grande figura dogon (n. 250), le due figure femminili baule (n. 173 e 192). A conferma del fatto che la qualità artistica poi non è necessariamente misurabile a metri o a pesi, invitiamo ad osservare con attenzione gli oggetti di piccolo formato. Spesso la loro qualità e monumentalità non sono inferiori a quelle degli oggetti maggiori tanto che, onde non trarre in inganno, si è deciso di inserire nelle sintetiche didascalie del catalogo anche l’indicazione della misura, a volte veramente fuorviante perché nasconde in pochi centimetri oggetti di qualità superiore.

 


 

DISPROPORTIONS

Trasformazioni del corpo femminile in funzione del territorio maschile nell’arte africana

di Alberto Salza

Nota introduttiva: nel testo seguente, il termine “arte africana” è di comodo. A parere di chi scrive, in Africa esistono la scultura, la pittura, la tessitura, la ceramica, l’oreficeria, la metallurgia, eccetera. La parola “arte” ha connotazioni moderne ed europee. L’antropologia postmoderna, alla base del testo seguente, studia la sintesi percettiva ed esperienziale di estetica (bellezza), etica (comportamento) ed epica (mito). Tale sintesi si incontra tra gli Africani di città, nei villaggi contadini, tra i pastori, in tutta l’Africa. Definirla convenzionalmente “arte africana” è riduttivo. È un’esperienza di sinestesi in cui forme, suoni, colori, movimenti, attori e spettatori formano un insieme inscindibile: “guarda la musica e ascolta la danza”.

Il corpo nudo s’adorna di una stilla di sudore, di una perla di rugiada, o, se sei Marilyn Monroe, di una goccia di profumo francese. Strano pensiero da avere, in un recinto del bestiame sperduto nella savana africana, dove la rugiada dura un attimo, il sudore secca all’istante e il naso al vento reca al cervello afrori ferini. Eppure, fino a qualche anno e turista fa, esisteva un luogo, nell’Etiopia meridionale, dove la bellezza veniva iscritta sul corpo nudo: la valle del fiume Omo.

 Fatto etnografico 0

Valle dell’Omo, Etiopia, 1991. All’ombra di un’euforbia c’è una ragazzina hamer. Siede nuda sui talloni, a busto eretto. L’acconciatura dei capelli, alta sulla fronte e senza la frangetta di dreadlocks alla rasta, la indica come nubile. C’è anche una vecchia, coperta di pelli. Se ne sta accucciata davanti al ventre della ragazza, la quale tiene le braccia sollevate sopra la testa con espressione corrusca, come se qualcosa la disturbasse, là in basso dove opera la vecchia. Vedo il sangue sulle cosce. L’anziana megera sposta di lato il poggiatesta che usa come sedile. E ricomincia a operare.

 Stavo guardando l’incisione della pelle che le ragazze hamer accettano di buon grado, giusto per essere belle. La vecchia praticava una serie di tagli paralleli, dall’ombelico al seno. Usava una vecchia lametta da barba. Poi, con una pinzetta strappapeli (considerati molto out nella moda degli hamer e di tutti i pastori dell’Africa orientale), sollevava l’incisione e vi inseriva un po’ di cenere. In tal modo, le cicatrici sarebbero rimaste in rilievo (cheloidi). La vecchia pareva non fermarsi mai: metteva polvere sulle ferite, le ammorbidiva con del sego, le spalmava con un impacco di farina di sorgo per alleviare il dolore e prevenire l’infezione (pare che, mescolata con erbe e radici polverizzate, la farina aumenti pure il turgore dei cheloidi, un effetto molto ambito dai potenziali sposi della fanciulla). Quindi, ricominciò il macello sulla schiena e le braccia. La ragazza mi parve indifferente: solo così avrebbe potuto trovare un marito e divenire madre legittima.

A quanto pare, la bellezza delle donne ha a che fare con la deformazione, con la scultura del corpo a partire dal pensiero maschile. Il fatto è che la cultura plasma la natura; ne altera le forme (per esempio: abbattendo alberi, spianando colline, cintando parchi “naturali”, pettinando e tagliando capelli, mutilando il corpo) e le proporzioni (selezione degli animali domestici, piante bonsai, ragazze anoressiche, “veneri” preistoriche, body-building). Di conseguenza, ogni rappresentazione del corpo umano è filtrata da un operatore topologico nella cultura di riferimento di chi produce l’opera e di chi la fruisce.

 Fatto etnografico 1

In Niger, 1972. I musicisti preparano i tamburi di calebassa accordandoli con la sabbia. Poi aspettano. «La cassa di risonanza dei nostri strumenti è la gente che gira attorno», si giustificano.

 Nell’arte africana, la trasformazione topologica del corpo è più marcata rispetto all’arte classica, considerata a torto squisitamente naturalista. Purtroppo, gli operatori di tale trasformazione, in Africa, ci sono sconosciuti: possiamo conoscere il luogo di origine, l’economia, alcuni aspetti esteriori della cultura di riferimento del gruppo etnico che ha prodotto l’opera d’arte, ma la maggior parte del substrato operativo dell’artista ci rimane ignoto. Probabilmente è impossibile penetrare in quel “Cuore di tenebra” che, per noi occidentali, rimane a torto il modello di pensiero africano, di cui l’arte (soprattutto la scultura) è parte fondamentale.

Una certa evidenza si può cogliere negli aspetti di genere. In Africa, i bambini hanno un sesso, ma i generi maschile e femminile vengono raggiunti solo quando la cultura (riti iniziatici) “incide” i suoi canoni nel corpo (scarificazioni, cheloidi, mutilazioni genitali maschili e femminili) e nella mente (educazione e inserimento nella società “adulta”). Solo dopo tali operazioni si diventa pienamente “umani”, ovvero persone (l’etimo di “persona” è quello di “maschera”, un oggetto artistico). Queste trasformazioni culturali sono alla base del concetto di “bellezza”. In sostanza, seguendo una metafora di Lévi-Strauss (1964), dapprima la carne è cruda, e come tale sarebbe da “selvaggi” consumarla; la prima fase topologica è l’utilizzo di un fenomeno ambientale (il fuoco) per  trasformarla in arrosto; ma è solo con il bollito, attraverso l’intermediazione culturale dell’acqua in un recipiente, che si arriva alla “civiltà”.

In tal senso, nelle società etnografiche la donna ha una valenza ambigua. Il suo potere riproduttivo, espresso mensilmente con il sangue mestruale, ne fa ancora “carne cruda” da arrostire con la gravidanza; il trionfo culturale della donna, soprattutto in Africa, resta la maternità. Questo quadro è proiettato nell’ambito del territorio che, data la storia dell’umanità, rimane ancora prettamente maschile. La trasformazione delle proporzioni e delle forme femminili diventa una simulazione di come il territorio maschile (quasi sempre antropomorfo, in Africa) venga plasmato dall’uomo per accogliere la donna, per portare alla “civiltà” la sua incontrollabile “naturalità”.

 Fatto etnografico 2

In Costa d’Avorio, 1975. Tompieme, scultore dan, liscia da ore una mascherina dagli occhi a mandorla, due misteriose fessure su una bocca a grandi labbra semiaperte. «È una maschera dea», spiega la madre di Tampieme, «e ha a che fare con l’iniziazione dei maschi. Deve essere bella come un’amante e dolce come la madre. Così, nella foresta, gli iniziandi non hanno paura».

 In Africa, gli oggetti non sono “cose”, ma ontogrammi ricchi di segni, implicitamente inscritti nei manufatti. Si dice che gli africani non abbiano scrittura. Bene, al posto, hanno lo “sguardo”. Si tratta di una percezione non neutra, che collega l’immagine (la postura di una statua, i disegni di una stoffa, i simboli di un monile, il gesto di un danzatore) alla memoria, in sequenze fisse e ripetute come fossero una sintassi. Gli africani dicono: «L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce». Ecco perché ci perdiamo il linguaggio formale degli africani. La maggior parte degli oggetti, qui, sono formule di verità, concise e piacevoli. Suggeriscono idee e forme di relazione. Apparendo in pubblico così spesso, servono a mantenere viva la coscienza collettiva. Collegano la morte alla vita. Gli oggetti, attraverso un loro specifico linguaggio (culturalmente determinato e differenziato), esprimono concetti, “parlano”.

 Fatto etnografico 3

A Kumasi, in Ghana, 1988. Il fabbro asante mi indica un anello con un pesce gatto (spinoso e combattivo): «Questa è la responsabilità sociale, dato che “chi va a caccia del pesce gatto va a caccia di guai”. Il porcospino, coraggioso, rappresenta invece tutta la nazione, se inserito sul manico dei coltelli cerimoniali. Due coccodrilli incrociati ricordano l'unità alla nazione akan, per limitare le ostilità tra i vari lignaggi». In Africa, i manufatti sono “intelligenti” e assorbiti dal sistema di dibattito sociale; sono narrazioni, sono proverbi (etimologia: “al posto delle parole”).

 I sistemi di trasformazione del corpo femminile posti in atto in Africa diventano la forma linguistica con cui gli uomini raccontano il proprio territorio e i rapporti di potere che lo tengono insieme. Prima di fornire alcuni esempi etnografici, diamo due definizioni:

1) Topologia

Parte della geometria che studia gli omeomorfismi, ovvero le trasformazioni di un “oggetto” (una figura, un sistema, una cosa) che assume proporzioni e forme diverse in funzione di un operatore (matematico o culturale), mantenendo nel processo la sua appartenenza all’insieme originario. Una donna nella scultura africana, stirata o ingrassata, a gambe corte o testa grossa, resta sempre una donna, anche se i modi di rappresentazione delle singole parti del corpo umano subiscono trasformazioni topologiche (proporzioni, funzioni, astrazioni) direttamente collegate a questi fattori (operatori):

  • storia del gruppo etnico (mito di fondazione, migrazioni, rapporti con i vicini, costruzione del territorio)

  • strategia di sopravvivenza (caccia-raccolta, pastorizia, agricoltura, gestione delle risorse)

  • modelli culturali (tecnica, estetica, etica, valori condivisi)

  • categorie sociali (genere, età, censo, casta, appartenenza etnica, religione)

  • identità (stili, artisti, intermediari, fruitori)

 2) Territorio

Trasformazione di un ambiente (ecosistema) in funzione dell’occupazione, alterazione, sfruttamento e difesa da parte di un gruppo umano. Tale trasformazione è alla base della cultura che la produce, nel senso che, retroattivamente il gruppo interferisce con l’ambiente e il territorio che ne deriva modifica a sua volta le persone che lo abitano. In tal modo, lo spazio diventa anche tempo (storia) e cultura simbolica (arte). Gli operatori (variabili) di tale trasformazione sono:

  • caratteristiche orografiche

  • clima

  • flora e fauna

  • risorse

  • genetica di popolazione

  • strategia di sopravvivenza

  • tecnologia

  • pratiche sociali

  • valori culturali

  • arte

 Fatto etnografico 4

A Djenne, Mali, 1998. Il sublime muratore in terra cruda Boubakar Kouroumansé, disegna la mappa del Mali secondo i suoi occhi: «Djenne è il cuore di un uomo», dice tracciando col dito punti e linee sull’argilla del fiume. «Il fiato, che è acqua come la parola, è nel traffico fluviale di Mopti, a sudovest. Le mani sono nella grande moschea di San e a Sofara, in modo che la schiena poggi sulle rocce di Bandiagara». Unendo i punti, delinea un uomo coricato nel delta. Il tronco va verso nordovest, mentre le gambe si protendono a nord, nel Sahara delle saline. «Queste linee sono immateriali, ma vive».

 Fatto etnografico 5

A Ghadames, in Libia, 2005. Sotto/sopra, uomo/donna. Sui tetti, le donne. Così son fatti l’habitat e l’abitazione di Ghadames: un doppio piano urbano. Al pianterreno, le camere sono buie, fresche, ricche di nicchie e risplendenti di arredi, con stucchi murali come trine. Qui vivono gli uomini e possono arrivare i visitatori. Una scala porta all’impenetrabile harām, il “velo” che protegge le donne dal malvagio mondo degli uomini. Così, le donne di Ghadames abitano un mondo solare, sui tetti. Passano da uno all’altro, sventolando le vesti colorate. Hanno il permesso di recarsi ai lavatoi sotterranei solo tra le 6 e le 7 del mattino e dalle 17 alle 19 del pomeriggio. Si tratta di un regno pensile intercomunicante, inviolabile e assolato. C’è pure un mercato di terrazza, che le donne hanno tutto per sé.

 Fatto etnografico 6

Con la carovana del sale, Mali, 1997. Saleh sid Ahmed, cammelliere, afferma: «questa zona è a forma di uomo a gambe all’aria. Nella moschea di Tegheza c’è il piede sinistro; nelle cave di sale di Taoudeni, quello destro; tra le case a colori di Oualata, in Mauritania, il sesso (laggiù le pittrici mi dissero che la scrittura dell’arabo non fa altro che rimembrare le curve delle donne); cuore e coraggio sono a Djenné e Mopti. La testa è a Timbuctù».

Per chi abita a Timbuctù, la moschea Sidi Yahya è il maschio, l’elemento di centro. La moschea Sankoré è la donna-sposa, color tortora, simbolo di intelletto e religione, con il minareto-testa rivolto a sud, il ventre nella sala di centro e gli arti nella corte. Sankoré è legata a tutto ciò che è magia: passarle accanto di notte porta pericoli. La moschea Djinguere-ber, è invece la donna negra del villaggio, con il sesso in evidenza come l’ombelico. È la fondatrice della città: a lei si collega la discendenza per via materna. Djinguere-ber ha la testa verso il nord, ad aspettar le carovane. È il simbolo della fertilità, tant’è vero che, attorno a essa, le donne si radunano per la festa della nascita del Profeta. Sankoré rappresenta l’albero del cielo e Djinguere-ber quello del sottoterra. I due alberi ruotano in senso inverso attorno al pilastro di Sidi Yahya, l’uomo, il centro.

 

 Case Study: gli Anang

Tra gli Anang della Nigeria sudorientale (D’Azevedo, W.L., ed., 1973: The Traditional Artist in African Societies, Indiana Un.Pr., Indianapolis), il concetto di arte ha quattro dimensioni: abbraccia sia gli oggetti, sia il comportamento, sculture tangibili quanto intangibili melodie; viene prodotta sia da specialisti, sia da uomini o donne qualunque. In realtà, gli “artisti” sono essenzialmente gli scultori, i tessitori, coloro che montano collage di stoffa, i cantanti, i danzatori, gli attori e i narratori (una vera professione, in Africa). Per gli Anang, l’arte è la creazione di una forma di per se stessa; non è utilitaristica. Di conseguenza non fanno arte i fabbri, i falegnami, i ceramisti o i costruttori di tamburi. Il criterio più importante di tutti è che l’arte susciti “un sentimento estetico” (mfen, con il significato al contempo di “bello e buono”) sia nei creatori, sia nei fruitori. Anche se gli Anang ammettono che la maggior parte delle sculture servano a fini utilitaristici, tuttavia affermano che gli elementi simbolici e decorativi sono prioritari. Uno scultore, mostrandomi una maschera “fantasma” (idiok ekpo) appena finita, diceva: «Vedi, i buchi per gli occhi sono utili; il ragno che ho scolpito al centro della fronte è il simbolo del male, mentre le due creste tonde in cima alla testa sono decorative». In sostanza, la bellezza, per molti africani, è un inestricabile amalgama di fattori estetici, economici e religiosi.

Su tutto questo, poi, cresce il pregiudizio a due vie. Quando, sempre in Nigeria, venne chiesto a un divinatore yoruba se fosse particolarmente orgoglioso di un suo bellissimo piatto da divinazione ifa, egli rispose: «È un contenitore per buone cose da divinazione». Apparentemente era privo di “senso estetico”. In realtà aveva perfettamente compreso che l’utilità era il solo tratto che un forestiero potesse capire. Da sempre, gli artisti-artigiani d’Africa tengono i pezzi migliori per la suocera e vendono i peggiori agli stranieri, dato che si presume che questi non siano in grado di capire appieno la differenza tra una statua “buona” e una “brutta”. Succede spesso che abbiano ragione. Ho visto uno scultore anago-yoruba, noto localmente per la sua eccezionale sensibilità nel trattare i colori di terra, lasciare che smalto sintetico venisse spalmato su oggetti commissionati dal mercato per gli occidentali, cancellando quasi ogni traccia dei mirabili segni del suo strumento sul legno. «È così che piace ai bianchi», diceva. Nel processo, i pregiudizi africani e occidentali si rinforzano reciprocamente.

In realtà, i Yoruba (presi come esempio per via della loro notissima arte) hanno criteri estetici complessi. Davanti a una maschera o a una statua, un gruppo di gente di villaggio farebbe attenzione a una lunga serie di parametri, prima di decidere sulla sua bellezza.

 

1)      Mimesi intermedia: una realizzazione artistica non dovrebbe essere troppo simile alla realtà. I Yoruba hanno una leggenda analoga a quella che narra di un pittore greco, il quale dipinse frutti così somiglianti al vero che gli uccelli vennero a beccarli (nel caso locale si tratta di scimmie, ovviamente). I conoscitori yoruba si accontentano di facce umane convenzionali, con qualche tocco di individualità (scarificazioni di lignaggio e pettinatura). Lo scopo dello scultore deve essere quello di arrivare a principi generali di umanità, pur passando per la personalità di uomini e donne, intesi come individui sommariamente riconoscibili.

2)      Ipermimesi: davanti a uno specchio, da queste parti, si prova spavento. C’è qualcosa di sinistro nella somiglianza assoluta. Prima di scolpire occhi, bocche e nasi umani, occorre fare un sacrificio, per prevenire l’ingresso “di bruttezza” nell’opera. Ogni individuo ha qualche difetto: l’ipermimesi dell’arte porterebbe  nel mondo ulteriori cicatrici da vaiolo, nasi storti, labbra strette, ecc. Le “brutte” fisionomie potrebbero diffondersi nel gruppo come un contagio. Questa potrebbe essere una ragione del progressivo espandersi dell’astrazione nella scultura africana, fino a un punto così sofisticato da fornire ispirazione a Picasso e agli artisti europei del primo Novecento.

3)      Astrazione eccessiva: una bella scultura non deve essere realistica, ma neppure allontanarsi troppo dalla forma naturale. Un signore di Oyo, davanti a una statua, disse: «Se le orecchie di una persona fossero così arrotondate, tutto il villaggio sparlerebbe di costui». L’astrazione deve mantenersi in equilibrio tra le qualità spirituali e quelle umane dell’oggetto di rappresentazione.

4)      Visibilità: riguarda le caratteristiche di scultura che evidenziano le parti più significative, come la testa, le spalle o i piedi in una statua. Esistono verbi specifici di allineamento, nella lingua yoruba, per indicare se uno scultore abbia “liberato” o meno, dalla massa informe del legno, i punti “belli” dell’aspetto umano. Considerando anche le scarificazioni facciali, occorre tener presente che i Yoruba associano le linee (tra cui vanno compresi i “contorni” di maschere e statue tridimensionali) alla civiltà. In yoruba, la parola “civiltà” (ilàjù) si traduce letteralmente con “faccia con linee di scarificazione”. In effetti, si diventa veri esseri umani quando sulla natura del corpo si sovrimpongono i segni della cultura.

5)      Liscio splendore: come per la visibilità, la luminosità deve essere parte fondamentale di una rappresentazione artistica yoruba. Lo splendore della patina per lisciatura, che deve rifinire l’opera, relaziona luci e ombre con le linee dei contorni e degli intagli. Un contadino di Odo-Nopa disse: «Una statua brutta si rovina in fretta. L’autore non ha ben lisciato il legno. Se l’avesse scolpita bella liscia, risplenderebbe anche tra cent’anni: non marcirebbe». La lisciatura appare come un modo di preservazione magica e, pertanto, va estratta direttamente dalla luminosità interna del legno, ai primi stati della lavorazione. Questo fa grande lo scultore. In sostanza, le forme rotondeggianti di un’immagine yoruba riflettono la luce, mentre occhi e labbra sporgenti gettano ombre calcolate sulle superfici lucide.

6)      Proporzione emotiva: le proporzioni sono una sorta di dialogo tra il permissivo e l’obbligatorio. I critici di villaggio apprezzano la prospettiva sociale nella composizione: lo scultore deve indicare l’anzianità attraverso gradazioni dimensionali di scala. In una maschera-copricapo gelede, scolpita da Duga di Meko, la faccia a casco è sormontata da un chierico musulmano in piedi in una canoa, affiancata da due teiere. Il chierico conta i grani del suo rosario. Questi grani sono enormi, sproporzionati, come fossero meloni. La proporzione emotiva comunica l’importanza psicologica di una cosa, contrapposta alle proporzioni reali. Duga espanse i grani per almeno due motivi: a) si sarebbero “letti” facilmente nei movimenti della danza; b) renderli conformi all’importanza che hanno i grani nel rituale islamico del dhikr (“grani parlanti”), in comunione solitaria con Allah e il Profeta. La dimensione del rosario traduce-tradisce il suo fascino agli occhi di un yoruba non-musulmano, che riconosce l’importanza cultuale dell’oggetto. Anche le teiere, pur in modo meno profondo, riflettono il concetto: rivelano l’importanza che la cerimonia del tè ha per i pastori nomadi musulmani. Le teiere vengono anche usate per le abluzioni della preghiera. Il riconoscimento della teiera come segno della penetrazione islamica in Africa nera è immediato negli spettatori della gelede. Sono dimensioni simboliche: «Noi prendiamo le misure dal cuore», disse Mashudi.

7)      Posizionamento: si tratta di una sovrapposizione parziale al concetto di proporzione. Alaperu analizzò l’appropriatezza della localizzazione delle parti del corpo in una statua: «Le orecchie vanno bene, ben fissate, non troppo giù, non troppo su». Nel caso del canto recitativo, spesso gli spettatori stessi intervengono per elidere alcuni versi, “altrimenti il testo appare troppo lungo”.

8)      Composizione: l’estetica della disposizione degli elementi in relazione l’uno con l’altro, tra i Yoruba, significa spesso la collocazione gradevole di braccia, gambe, mani in termini spaziali. Uno scultore caratterizzerà la bellezza con la gradevole posizione delle mani di una figurina in un piatto di divinazione. In caso diverso, è l’aspetto sociale a prevalere: i membri della corte di un personaggio eminente verranno posizionati in una scultura di modo che non impàllino la vista del loro signore se osservati di fronte.

9)      Delicatezza: i critici di villaggio apprezzano le morfologie poco vistose, tratti “piccoli” (occhi, labbra, soprattutto le linee e gli intagli nelle pettinature femminili). In yoruba, si usano quattro parole per chiarire il concetto: kékeré (“piccolo”, con riferimento alla massa); kéré (“è piccolo”, con riferimento alla delicatezza delle masse, in contesto di approvazione, o come eccessiva diminuzione delle proporzioni, in contesto di disapprovazione); tìnrìn (“stretto”, con riferimento alla delicatezza di linea, sia di contorno, sia di incisione; applicata alla massa, la parola può avere connotati negativi); (“è sottile”, in senso speciale: piccole incisioni in nette linee parallele, una stretta all’altra).

10)  Rotondità: rapporto difficile tra contorni e masse sferiche. Un igbo-mina ha detto: «Preferisco quel mento – l’altro è piatto e appuntito – dato che il mento migliore è moderatamente tondo». Uno scultore deve “inventare” la rotondità della maschera gelede, dopo attenta osservazione della realtà. «Noi usiamo gli occhi per osservare come siano rotonde le cose», ha detto lo scultore di gelede Latunji.

11)  Protrusioni: a completamento del concetto di rotondità, protrusioni spigolose sono considerate “inumane” dai Yoruba (in special modo per quel che riguarda il sedere). Un critico di Sepeteri espresse la qualità tattile di un naso dicendo: «Sporge. Riesci a tenere il naso bello tra le dita; non puoi farlo con un naso poco attraente». Il criterio distingue lo scultoreo dallo schematico. Esistono protrusioni sgradevoli, quando una massa è troppo sporgente (fronte, mento, sedere). Il verbo usato è ò yo, che ha radicale simile a quello di “insultare”, come nella frase yoruba ò yonun, “porta guai”, che in realtà vuol dire letteralmente “ha la bocca che protrude in avanti”.

12)  Gonfiori sinistri: se le masse rotonde caratterizzano la scultura yoruba, protuberanze eccessive sono da considerarsi negative. Il verbo usato (), che serve per dire “la testa è gonfia”, significa in realtà “ricordo qualcosa che mi dà ansia” e ha a che vedere con eventi terrificanti. Per evitare malefici, la raffigurazione di donne incinte è molto rara tra i Yoruba. A quanto pare, ogni gonfiore viene correlato a una qualche forma di patologia, con connotati di pericolo.

13)  Angolarità piacevole: dato che una delle forze dell’arte africana è la flessibilità, la rotondità delle forme non è legge immutabile. I menti dello stile di Efon-Alaiye, per esempio sono apprezzati per essere aguzzi. «I menti di Efon si notano per davvero», dicono nel villaggio «sembrano lame di zappa». Gli angoli acuti sono correlati a coraggio e carattere: è come il potere di accumulo di carica elettrica nelle punte. Di conseguenza, a seconda del personaggio rappresentato, l’angolarità dei tratti può avere valore positivo.

14)  Dirittura: insieme alla rotondità, è tratto geometrico essenziale in una bella scultura yoruba. Si tratta di postura eretta e, per estensione, di allineamenti in equilibrio e simmetria. Richiesto perché guardasse di lontano una sua scultura, Bandele di Osi-Ilorin rispose: «Osservo la dirittura del lavoro, in modo tale che non venga su storta». Nelle raffigurazioni dei gemelli (ibéjì), viene apprezzata la schiena dritta e malvista la postura accucciata.

15)  Simmetria: è una virtù calmante, una costante nell’arte yoruba. Le labbra serene di una statua di gemelli si riflettono nella disposizione equilibrata delle mani. La statua di una donna in offerta rituale ha mani che si piegano in perfetta simmetria attorno al piatto. Gli scultori si preoccupano, fin dallo sgrossamento del legno, di misurare le masse su entrambi i lati, per non avere orecchie o braccia asimmetriche. Anche la poesia yoruba riflette questo desiderio di simmetria, in quanto ordine del mondo: “Perché ci lamentiamo se un albero è piegato / Quando, nelle nostre strade, addirittura gli uomini si piegano in due? / Perché dobbiamo lamentarci dell’inclinazione della Luna nuova? / Potrà mai qualcuno raggiungere i cieli per raddrizzarla?”.

16)  Abilità: è una qualità molto stimata, per quanto riguarda gli artisti. Tra i Yoruba esistono i “nomi di lode”, specie di soprannomi altamente positivi, simili al nostro antico “maestro” (non a caso usato ancora oggi per grandi cantanti e pittori). Taiwo di Ilaro, morto nel 1920 circa, i cui capolavori sono conservati nel Royal Ontario Museum di Toronto, era chiamato Onìpàsònòbe. Indica uno che possegga un coltello che sia come una frusta. Tale era l’abilità di Taiwo, per i Yoruba, che estraeva forme dal legno bruto come se lo sferzasse con il coltello.

17)  Neotenia: questo è forse il criterio più importante. In un certo senso è la ricombinazione di tutti gli altri canoni. La parola indica la rappresentazione delle persone con tratti infantili, efebici. La domanda che si pongono i Yoruba è: «L’immagine, fa apparire il soggetto giovane?». Si considera appropriato adulare la bellezza morale degli anziani per mezzo della bellezza fisica dei giovani. In tal senso, succede sovente che la “patina” d’uso, la quale rende le forme lisce e apparentemente più gradevoli, così da essere ricercata dai collezionisti occidentali, viene considerata negativa dai Yoruba, in quanto il “consumo” delle forme le invecchia in qualche modo. Mashudi di Meko disse: «Se scolpisco il viso di un anziano, devo ritrarlo com’era da giovane. Se facessi un’immagine che sembra un vecchio, alla gente non piacerebbe. Non riuscirei a vendere l’opera. Uno scolpisce immagini come fossero uomini o donne giovani, per attirare la gente».

Alberto Salza

 

 

 

 

Comunicato stampa

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REPORTAGE   FOTOGRAFICO

Recensione di Marcello Lattari

 

 

 

 


 

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