DISPROPORTIONS
Trasformazioni del corpo femminile in
funzione del territorio maschile nell’arte africana
di Alberto Salza
Nota introduttiva: nel testo seguente, il termine
“arte africana” è di comodo. A parere di chi scrive, in Africa esistono
la scultura, la pittura, la tessitura, la ceramica, l’oreficeria, la
metallurgia, eccetera. La parola “arte” ha connotazioni moderne ed
europee. L’antropologia postmoderna, alla base del testo seguente,
studia la sintesi percettiva ed esperienziale di estetica (bellezza),
etica (comportamento) ed epica (mito). Tale sintesi si incontra tra gli
Africani di città, nei villaggi contadini, tra i pastori, in tutta
l’Africa. Definirla convenzionalmente “arte africana” è riduttivo. È
un’esperienza di sinestesi in cui forme, suoni, colori, movimenti,
attori e spettatori formano un insieme inscindibile: “guarda la musica e
ascolta la danza”.
Il corpo nudo s’adorna di una stilla di sudore, di
una perla di rugiada, o, se sei Marilyn Monroe, di una goccia di profumo
francese. Strano pensiero da avere, in un recinto del bestiame sperduto
nella savana africana, dove la rugiada dura un attimo, il sudore secca
all’istante e il naso al vento reca al cervello afrori ferini. Eppure,
fino a qualche anno e turista fa, esisteva un luogo, nell’Etiopia
meridionale, dove la bellezza veniva iscritta sul corpo nudo: la valle
del fiume Omo.
Fatto etnografico 0
Valle dell’Omo, Etiopia, 1991. All’ombra di
un’euforbia c’è una ragazzina hamer. Siede nuda sui talloni, a busto
eretto. L’acconciatura dei capelli, alta sulla fronte e senza la
frangetta di dreadlocks alla rasta, la indica come nubile. C’è
anche una vecchia, coperta di pelli. Se ne sta accucciata davanti al
ventre della ragazza, la quale tiene le braccia sollevate sopra la testa
con espressione corrusca, come se qualcosa la disturbasse, là in basso
dove opera la vecchia. Vedo il sangue sulle cosce. L’anziana megera
sposta di lato il poggiatesta che usa come sedile. E ricomincia a
operare.
Stavo guardando l’incisione della pelle che le
ragazze hamer accettano di buon grado, giusto per essere belle. La
vecchia praticava una serie di tagli paralleli, dall’ombelico al seno.
Usava una vecchia lametta da barba. Poi, con una pinzetta strappapeli
(considerati molto out nella moda degli hamer e di tutti i
pastori dell’Africa orientale), sollevava l’incisione e vi inseriva un
po’ di cenere. In tal modo, le cicatrici sarebbero rimaste in rilievo (cheloidi).
La vecchia pareva non fermarsi mai: metteva polvere sulle ferite, le
ammorbidiva con del sego, le spalmava con un impacco di farina di sorgo
per alleviare il dolore e prevenire l’infezione (pare che, mescolata con
erbe e radici polverizzate, la farina aumenti pure il turgore dei
cheloidi, un effetto molto ambito dai potenziali sposi della fanciulla).
Quindi, ricominciò il macello sulla schiena e le braccia. La ragazza mi
parve indifferente: solo così avrebbe potuto trovare un marito e
divenire madre legittima.
A quanto pare, la bellezza delle donne ha a che fare
con la deformazione, con la scultura del corpo a partire dal pensiero
maschile. Il fatto è che la cultura plasma la natura; ne altera le forme
(per esempio: abbattendo alberi, spianando colline, cintando parchi
“naturali”, pettinando e tagliando capelli, mutilando il corpo) e le
proporzioni (selezione degli animali domestici, piante bonsai, ragazze
anoressiche, “veneri” preistoriche, body-building). Di conseguenza, ogni
rappresentazione del corpo umano è filtrata da un operatore topologico
nella cultura di riferimento di chi produce l’opera e di chi la fruisce.
Fatto etnografico 1
In Niger, 1972. I musicisti preparano i tamburi di
calebassa accordandoli con la sabbia. Poi aspettano. «La cassa di
risonanza dei nostri strumenti è la gente che gira attorno», si
giustificano.
Nell’arte africana, la trasformazione topologica del
corpo è più marcata rispetto all’arte classica, considerata a torto
squisitamente naturalista. Purtroppo, gli operatori di tale
trasformazione, in Africa, ci sono sconosciuti: possiamo conoscere il
luogo di origine, l’economia, alcuni aspetti esteriori della cultura di
riferimento del gruppo etnico che ha prodotto l’opera d’arte, ma la
maggior parte del substrato operativo dell’artista ci rimane ignoto.
Probabilmente è impossibile penetrare in quel “Cuore di tenebra” che,
per noi occidentali, rimane a torto il modello di pensiero africano, di
cui l’arte (soprattutto la scultura) è parte fondamentale.
Una certa evidenza si può cogliere negli aspetti di
genere. In Africa, i bambini hanno un sesso, ma i generi maschile e
femminile vengono raggiunti solo quando la cultura (riti iniziatici)
“incide” i suoi canoni nel corpo (scarificazioni, cheloidi, mutilazioni
genitali maschili e femminili) e nella mente (educazione e inserimento
nella società “adulta”). Solo dopo tali operazioni si diventa pienamente
“umani”, ovvero persone (l’etimo di “persona” è quello di “maschera”, un
oggetto artistico). Queste trasformazioni culturali sono alla base del
concetto di “bellezza”. In sostanza, seguendo una metafora di
Lévi-Strauss (1964), dapprima la carne è cruda, e come tale sarebbe da
“selvaggi” consumarla; la prima fase topologica è l’utilizzo di un
fenomeno ambientale (il fuoco) per trasformarla in arrosto; ma è solo
con il bollito, attraverso l’intermediazione culturale dell’acqua in un
recipiente, che si arriva alla “civiltà”.
In tal senso, nelle società etnografiche la donna ha
una valenza ambigua. Il suo potere riproduttivo, espresso mensilmente
con il sangue mestruale, ne fa ancora “carne cruda” da arrostire con la
gravidanza; il trionfo culturale della donna, soprattutto in Africa,
resta la maternità. Questo quadro è proiettato nell’ambito del
territorio che, data la storia dell’umanità, rimane ancora prettamente
maschile. La trasformazione delle proporzioni e delle forme femminili
diventa una simulazione di come il territorio maschile (quasi sempre
antropomorfo, in Africa) venga plasmato dall’uomo per accogliere la
donna, per portare alla “civiltà” la sua incontrollabile “naturalità”.
Fatto etnografico 2
In Costa d’Avorio, 1975. Tompieme, scultore dan,
liscia da ore una mascherina dagli occhi a mandorla, due misteriose
fessure su una bocca a grandi labbra semiaperte. «È una maschera dea»,
spiega la madre di Tampieme, «e ha a che fare con l’iniziazione dei
maschi. Deve essere bella come un’amante e dolce come la madre. Così,
nella foresta, gli iniziandi non hanno paura».
In Africa, gli oggetti non sono “cose”, ma ontogrammi ricchi di segni, implicitamente inscritti nei manufatti. Si
dice che gli africani non abbiano scrittura. Bene, al posto, hanno lo
“sguardo”. Si tratta di una percezione non neutra, che collega
l’immagine (la postura di una statua, i disegni di una stoffa, i simboli
di un monile, il gesto di un danzatore) alla memoria, in sequenze fisse
e ripetute come fossero una sintassi. Gli africani dicono: «L’occhio
dello straniero vede solo ciò che già conosce». Ecco perché ci perdiamo
il linguaggio formale degli africani. La maggior parte degli oggetti,
qui, sono formule di verità, concise e piacevoli. Suggeriscono idee e
forme di relazione. Apparendo in pubblico così spesso, servono a
mantenere viva la coscienza collettiva. Collegano la morte alla vita.
Gli oggetti, attraverso un loro specifico linguaggio (culturalmente
determinato e differenziato), esprimono concetti, “parlano”.
Fatto etnografico 3
A Kumasi, in Ghana, 1988. Il fabbro asante mi indica
un anello con un pesce gatto (spinoso e combattivo): «Questa è la
responsabilità sociale, dato che “chi va a caccia del pesce gatto va a
caccia di guai”. Il porcospino, coraggioso, rappresenta invece tutta la
nazione, se inserito sul manico dei coltelli cerimoniali. Due
coccodrilli incrociati ricordano l'unità alla nazione akan, per limitare
le ostilità tra i vari lignaggi». In Africa, i manufatti sono
“intelligenti” e assorbiti dal sistema di dibattito sociale; sono
narrazioni, sono proverbi (etimologia: “al posto delle parole”).
I sistemi di trasformazione del corpo femminile
posti in atto in Africa diventano la forma linguistica con cui gli
uomini raccontano il proprio territorio e i rapporti di potere che lo
tengono insieme. Prima di fornire alcuni esempi etnografici, diamo due
definizioni:
1) Topologia
Parte della geometria che studia gli omeomorfismi,
ovvero le trasformazioni di un “oggetto” (una figura, un sistema, una
cosa) che assume proporzioni e forme diverse in funzione di un operatore
(matematico o culturale), mantenendo nel processo la sua appartenenza
all’insieme originario. Una donna nella scultura africana, stirata o
ingrassata, a gambe corte o testa grossa, resta sempre una donna, anche
se i modi di rappresentazione delle singole parti del corpo umano
subiscono trasformazioni topologiche (proporzioni, funzioni, astrazioni)
direttamente collegate a questi fattori (operatori):
-
storia del gruppo etnico (mito di fondazione,
migrazioni, rapporti con i vicini, costruzione del territorio)
-
strategia di sopravvivenza (caccia-raccolta,
pastorizia, agricoltura, gestione delle risorse)
-
modelli culturali (tecnica, estetica, etica,
valori condivisi)
-
categorie sociali (genere, età, censo, casta,
appartenenza etnica, religione)
-
identità (stili, artisti, intermediari, fruitori)
2) Territorio
Trasformazione di un ambiente (ecosistema) in
funzione dell’occupazione, alterazione, sfruttamento e difesa da parte
di un gruppo umano. Tale trasformazione è alla base della cultura che la
produce, nel senso che, retroattivamente il gruppo interferisce con
l’ambiente e il territorio che ne deriva modifica a sua volta le persone
che lo abitano. In tal modo, lo spazio diventa anche tempo (storia) e
cultura simbolica (arte). Gli operatori (variabili) di tale
trasformazione sono:
Fatto etnografico 4
A Djenne, Mali, 1998. Il sublime muratore in terra
cruda Boubakar Kouroumansé, disegna la mappa del Mali secondo i suoi
occhi: «Djenne è il cuore di un uomo», dice tracciando col dito punti e
linee sull’argilla del fiume. «Il fiato, che è acqua come la parola, è
nel traffico fluviale di Mopti, a sudovest. Le mani sono nella grande
moschea di San e a Sofara, in modo che la schiena poggi sulle rocce di
Bandiagara». Unendo i punti, delinea un uomo coricato nel delta. Il
tronco va verso nordovest, mentre le gambe si protendono a nord, nel
Sahara delle saline. «Queste linee sono immateriali, ma vive».
Fatto etnografico 5
A Ghadames, in Libia, 2005. Sotto/sopra, uomo/donna.
Sui tetti, le donne. Così son fatti l’habitat e l’abitazione di Ghadames:
un doppio piano urbano. Al pianterreno, le camere sono buie, fresche,
ricche di nicchie e risplendenti di arredi, con stucchi murali come
trine. Qui vivono gli uomini e possono arrivare i visitatori. Una scala
porta all’impenetrabile harām, il “velo” che protegge le donne
dal malvagio mondo degli uomini. Così, le donne di Ghadames abitano un
mondo solare, sui tetti. Passano da uno all’altro, sventolando le vesti
colorate. Hanno il permesso di recarsi ai lavatoi sotterranei solo tra
le 6 e le 7 del mattino e dalle 17 alle 19 del pomeriggio. Si tratta di
un regno pensile intercomunicante, inviolabile e assolato. C’è pure un
mercato di terrazza, che le donne hanno tutto per sé.
Fatto etnografico 6
Con la carovana del sale, Mali, 1997. Saleh sid Ahmed,
cammelliere, afferma: «questa zona è a forma di uomo a gambe all’aria.
Nella moschea di Tegheza c’è il piede sinistro; nelle cave di sale di
Taoudeni, quello destro; tra le case a colori di Oualata, in Mauritania,
il sesso (laggiù le pittrici mi dissero che la scrittura dell’arabo non
fa altro che rimembrare le curve delle donne); cuore e coraggio sono a
Djenné e Mopti. La testa è a Timbuctù».
Per chi abita a Timbuctù, la moschea Sidi Yahya è il
maschio, l’elemento di centro. La moschea Sankoré è la donna-sposa,
color tortora, simbolo di intelletto e religione, con il minareto-testa
rivolto a sud, il ventre nella sala di centro e gli arti nella corte.
Sankoré è legata a tutto ciò che è magia: passarle accanto di notte
porta pericoli. La moschea Djinguere-ber, è invece la donna negra del
villaggio, con il sesso in evidenza come l’ombelico. È la fondatrice
della città: a lei si collega la discendenza per via materna.
Djinguere-ber ha la testa verso il nord, ad aspettar le carovane. È il
simbolo della fertilità, tant’è vero che, attorno a essa, le donne si
radunano per la festa della nascita del Profeta. Sankoré rappresenta
l’albero del cielo e Djinguere-ber quello del sottoterra. I due alberi
ruotano in senso inverso attorno al pilastro di Sidi Yahya, l’uomo, il
centro.
Case Study: gli Anang
Tra gli Anang della Nigeria sudorientale (D’Azevedo,
W.L., ed., 1973: The Traditional Artist in African Societies,
Indiana Un.Pr., Indianapolis), il concetto di arte ha quattro
dimensioni: abbraccia sia gli oggetti, sia il comportamento, sculture
tangibili quanto intangibili melodie; viene prodotta sia da specialisti,
sia da uomini o donne qualunque. In realtà, gli “artisti” sono
essenzialmente gli scultori, i tessitori, coloro che montano collage di
stoffa, i cantanti, i danzatori, gli attori e i narratori (una vera
professione, in Africa). Per gli Anang, l’arte è la creazione di una
forma di per se stessa; non è utilitaristica. Di conseguenza non fanno
arte i fabbri, i falegnami, i ceramisti o i costruttori di tamburi. Il
criterio più importante di tutti è che l’arte susciti “un sentimento
estetico” (mfen, con il significato al contempo di “bello e
buono”) sia nei creatori, sia nei fruitori. Anche se gli Anang ammettono
che la maggior parte delle sculture servano a fini utilitaristici,
tuttavia affermano che gli elementi simbolici e decorativi sono
prioritari. Uno scultore, mostrandomi una maschera “fantasma” (idiok
ekpo) appena finita, diceva: «Vedi, i buchi per gli occhi sono
utili; il ragno che ho scolpito al centro della fronte è il simbolo del
male, mentre le due creste tonde in cima alla testa sono decorative». In
sostanza, la bellezza, per molti africani, è un inestricabile amalgama
di fattori estetici, economici e religiosi.
Su tutto questo, poi, cresce il pregiudizio a due
vie. Quando, sempre in Nigeria, venne chiesto a un divinatore yoruba se
fosse particolarmente orgoglioso di un suo bellissimo piatto da
divinazione ifa, egli rispose: «È un contenitore per buone cose da
divinazione». Apparentemente era privo di “senso estetico”. In realtà
aveva perfettamente compreso che l’utilità era il solo tratto che un
forestiero potesse capire. Da sempre, gli artisti-artigiani d’Africa
tengono i pezzi migliori per la suocera e vendono i peggiori agli
stranieri, dato che si presume che questi non siano in grado di capire
appieno la differenza tra una statua “buona” e una “brutta”. Succede
spesso che abbiano ragione. Ho visto uno scultore anago-yoruba, noto
localmente per la sua eccezionale sensibilità nel trattare i colori di
terra, lasciare che smalto sintetico venisse spalmato su oggetti
commissionati dal mercato per gli occidentali, cancellando quasi ogni
traccia dei mirabili segni del suo strumento sul legno. «È così che
piace ai bianchi», diceva. Nel processo, i pregiudizi africani e
occidentali si rinforzano reciprocamente.
In realtà, i Yoruba (presi come esempio per via della
loro notissima arte) hanno criteri estetici complessi. Davanti a una
maschera o a una statua, un gruppo di gente di villaggio farebbe
attenzione a una lunga serie di parametri, prima di decidere sulla sua
bellezza.
1)
Mimesi intermedia: una realizzazione
artistica non dovrebbe essere troppo simile alla realtà. I Yoruba hanno
una leggenda analoga a quella che narra di un pittore greco, il quale
dipinse frutti così somiglianti al vero che gli uccelli vennero a
beccarli (nel caso locale si tratta di scimmie, ovviamente). I
conoscitori yoruba si accontentano di facce umane convenzionali, con
qualche tocco di individualità (scarificazioni di lignaggio e
pettinatura). Lo scopo dello scultore deve essere quello di arrivare a
principi generali di umanità, pur passando per la personalità di uomini
e donne, intesi come individui sommariamente riconoscibili.
2)
Ipermimesi: davanti a uno specchio, da
queste parti, si prova spavento. C’è qualcosa di sinistro nella
somiglianza assoluta. Prima di scolpire occhi, bocche e nasi umani,
occorre fare un sacrificio, per prevenire l’ingresso “di bruttezza”
nell’opera. Ogni individuo ha qualche difetto: l’ipermimesi dell’arte
porterebbe nel mondo ulteriori cicatrici da vaiolo, nasi storti, labbra
strette, ecc. Le “brutte” fisionomie potrebbero diffondersi nel gruppo
come un contagio. Questa potrebbe essere una ragione del progressivo
espandersi dell’astrazione nella scultura africana, fino a un punto così
sofisticato da fornire ispirazione a Picasso e agli artisti europei del
primo Novecento.
3)
Astrazione eccessiva: una bella
scultura non deve essere realistica, ma neppure allontanarsi troppo
dalla forma naturale. Un signore di Oyo, davanti a una statua, disse:
«Se le orecchie di una persona fossero così arrotondate, tutto il
villaggio sparlerebbe di costui». L’astrazione deve mantenersi in
equilibrio tra le qualità spirituali e quelle umane dell’oggetto di
rappresentazione.
4)
Visibilità: riguarda le caratteristiche
di scultura che evidenziano le parti più significative, come la testa,
le spalle o i piedi in una statua. Esistono verbi specifici di
allineamento, nella lingua yoruba, per indicare se uno scultore abbia
“liberato” o meno, dalla massa informe del legno, i punti “belli”
dell’aspetto umano. Considerando anche le scarificazioni facciali,
occorre tener presente che i Yoruba associano le linee (tra cui vanno
compresi i “contorni” di maschere e statue tridimensionali) alla
civiltà. In yoruba, la parola “civiltà” (ilàjù) si traduce
letteralmente con “faccia con linee di scarificazione”. In effetti, si
diventa veri esseri umani quando sulla natura del corpo si sovrimpongono
i segni della cultura.
5)
Liscio splendore: come per la
visibilità, la luminosità deve essere parte fondamentale di una
rappresentazione artistica yoruba. Lo splendore della patina per
lisciatura, che deve rifinire l’opera, relaziona luci e ombre con le
linee dei contorni e degli intagli. Un contadino di Odo-Nopa disse: «Una
statua brutta si rovina in fretta. L’autore non ha ben lisciato il
legno. Se l’avesse scolpita bella liscia, risplenderebbe anche tra cent’anni:
non marcirebbe». La lisciatura appare come un modo di preservazione
magica e, pertanto, va estratta direttamente dalla luminosità interna
del legno, ai primi stati della lavorazione. Questo fa grande lo
scultore. In sostanza, le forme rotondeggianti di un’immagine yoruba
riflettono la luce, mentre occhi e labbra sporgenti gettano ombre
calcolate sulle superfici lucide.
6)
Proporzione emotiva: le proporzioni
sono una sorta di dialogo tra il permissivo e l’obbligatorio. I critici
di villaggio apprezzano la prospettiva sociale nella composizione: lo
scultore deve indicare l’anzianità attraverso gradazioni dimensionali di
scala. In una maschera-copricapo gelede, scolpita da Duga di Meko,
la faccia a casco è sormontata da un chierico musulmano in piedi in una
canoa, affiancata da due teiere. Il chierico conta i grani del suo
rosario. Questi grani sono enormi, sproporzionati, come fossero meloni.
La proporzione emotiva comunica l’importanza psicologica di una cosa,
contrapposta alle proporzioni reali. Duga espanse i grani per almeno due
motivi: a) si sarebbero “letti” facilmente nei movimenti della danza; b)
renderli conformi all’importanza che hanno i grani nel rituale islamico
del dhikr (“grani parlanti”), in comunione solitaria con Allah e
il Profeta. La dimensione del rosario traduce-tradisce il suo fascino
agli occhi di un yoruba non-musulmano, che riconosce l’importanza
cultuale dell’oggetto. Anche le teiere, pur in modo meno profondo,
riflettono il concetto: rivelano l’importanza che la cerimonia del tè ha
per i pastori nomadi musulmani. Le teiere vengono anche usate per le
abluzioni della preghiera. Il riconoscimento della teiera come segno
della penetrazione islamica in Africa nera è immediato negli spettatori
della gelede. Sono dimensioni simboliche: «Noi prendiamo le
misure dal cuore», disse Mashudi.
7)
Posizionamento: si tratta di una
sovrapposizione parziale al concetto di proporzione. Alaperu analizzò l’appropriatezza
della localizzazione delle parti del corpo in una statua: «Le orecchie
vanno bene, ben fissate, non troppo giù, non troppo su». Nel caso del
canto recitativo, spesso gli spettatori stessi intervengono per elidere
alcuni versi, “altrimenti il testo appare troppo lungo”.
8)
Composizione: l’estetica della
disposizione degli elementi in relazione l’uno con l’altro, tra i Yoruba,
significa spesso la collocazione gradevole di braccia, gambe, mani in
termini spaziali. Uno scultore caratterizzerà la bellezza con la
gradevole posizione delle mani di una figurina in un piatto di
divinazione. In caso diverso, è l’aspetto sociale a prevalere: i membri
della corte di un personaggio eminente verranno posizionati in una
scultura di modo che non impàllino la vista del loro signore se
osservati di fronte.
9)
Delicatezza: i critici di villaggio
apprezzano le morfologie poco vistose, tratti “piccoli” (occhi, labbra,
soprattutto le linee e gli intagli nelle pettinature femminili). In
yoruba, si usano quattro parole per chiarire il concetto: kékeré
(“piccolo”, con riferimento alla massa); kéré (“è piccolo”, con
riferimento alla delicatezza delle masse, in contesto di approvazione, o
come eccessiva diminuzione delle proporzioni, in contesto di
disapprovazione); tìnrìn (“stretto”, con riferimento alla
delicatezza di linea, sia di contorno, sia di incisione; applicata alla
massa, la parola può avere connotati negativi); wé (“è sottile”,
in senso speciale: piccole incisioni in nette linee parallele, una
stretta all’altra).
10)
Rotondità: rapporto difficile tra
contorni e masse sferiche. Un igbo-mina ha detto: «Preferisco quel mento
– l’altro è piatto e appuntito – dato che il mento migliore è
moderatamente tondo». Uno scultore deve “inventare” la rotondità della
maschera gelede, dopo attenta osservazione della realtà. «Noi
usiamo gli occhi per osservare come siano rotonde le cose», ha detto lo
scultore di gelede Latunji.
11)
Protrusioni: a completamento del
concetto di rotondità, protrusioni spigolose sono considerate “inumane”
dai Yoruba (in special modo per quel che riguarda il sedere). Un critico
di Sepeteri espresse la qualità tattile di un naso dicendo: «Sporge.
Riesci a tenere il naso bello tra le dita; non puoi farlo con un naso
poco attraente». Il criterio distingue lo scultoreo dallo schematico.
Esistono protrusioni sgradevoli, quando una massa è troppo sporgente
(fronte, mento, sedere). Il verbo usato è ò yo, che ha radicale
simile a quello di “insultare”, come nella frase yoruba ò yonun,
“porta guai”, che in realtà vuol dire letteralmente “ha la bocca che
protrude in avanti”.
12)
Gonfiori sinistri: se le masse rotonde
caratterizzano la scultura yoruba, protuberanze eccessive sono da
considerarsi negative. Il verbo usato (wù), che serve per dire
“la testa è gonfia”, significa in realtà “ricordo qualcosa che mi dà
ansia” e ha a che vedere con eventi terrificanti. Per evitare malefici,
la raffigurazione di donne incinte è molto rara tra i Yoruba. A quanto
pare, ogni gonfiore viene correlato a una qualche forma di patologia,
con connotati di pericolo.
13)
Angolarità piacevole: dato che una
delle forze dell’arte africana è la flessibilità, la rotondità delle
forme non è legge immutabile. I menti dello stile di Efon-Alaiye, per
esempio sono apprezzati per essere aguzzi. «I menti di Efon si notano
per davvero», dicono nel villaggio «sembrano lame di zappa». Gli angoli
acuti sono correlati a coraggio e carattere: è come il potere di
accumulo di carica elettrica nelle punte. Di conseguenza, a seconda del
personaggio rappresentato, l’angolarità dei tratti può avere valore
positivo.
14)
Dirittura: insieme alla rotondità, è
tratto geometrico essenziale in una bella scultura yoruba. Si tratta di
postura eretta e, per estensione, di allineamenti in equilibrio e
simmetria. Richiesto perché guardasse di lontano una sua scultura,
Bandele di Osi-Ilorin rispose: «Osservo la dirittura del lavoro, in modo
tale che non venga su storta». Nelle raffigurazioni dei gemelli (ibéjì),
viene apprezzata la schiena dritta e malvista la postura accucciata.
15)
Simmetria: è una virtù calmante, una
costante nell’arte yoruba. Le labbra serene di una statua di gemelli si
riflettono nella disposizione equilibrata delle mani. La statua di una
donna in offerta rituale ha mani che si piegano in perfetta simmetria
attorno al piatto. Gli scultori si preoccupano, fin dallo sgrossamento
del legno, di misurare le masse su entrambi i lati, per non avere
orecchie o braccia asimmetriche. Anche la poesia yoruba riflette questo
desiderio di simmetria, in quanto ordine del mondo: “Perché ci
lamentiamo se un albero è piegato / Quando, nelle nostre strade,
addirittura gli uomini si piegano in due? / Perché dobbiamo lamentarci
dell’inclinazione della Luna nuova? / Potrà mai qualcuno raggiungere i
cieli per raddrizzarla?”.
16)
Abilità: è una qualità molto stimata,
per quanto riguarda gli artisti. Tra i Yoruba esistono i “nomi di lode”,
specie di soprannomi altamente positivi, simili al nostro antico
“maestro” (non a caso usato ancora oggi per grandi cantanti e pittori).
Taiwo di Ilaro, morto nel 1920 circa, i cui capolavori sono conservati
nel Royal Ontario Museum di Toronto, era chiamato Onìpàsònòbe. Indica
uno che possegga un coltello che sia come una frusta. Tale era l’abilità
di Taiwo, per i Yoruba, che estraeva forme dal legno bruto come se lo
sferzasse con il coltello.
17)
Neotenia: questo è forse il criterio
più importante. In un certo senso è la ricombinazione di tutti gli altri
canoni. La parola indica la rappresentazione delle persone con tratti
infantili, efebici. La domanda che si pongono i Yoruba è: «L’immagine,
fa apparire il soggetto giovane?». Si considera appropriato adulare la
bellezza morale degli anziani per mezzo della bellezza fisica dei
giovani. In tal senso, succede sovente che la “patina” d’uso, la quale
rende le forme lisce e apparentemente più gradevoli, così da essere
ricercata dai collezionisti occidentali, viene considerata negativa dai
Yoruba, in quanto il “consumo” delle forme le invecchia in qualche modo.
Mashudi di Meko disse: «Se scolpisco il viso di un anziano, devo
ritrarlo com’era da giovane. Se facessi un’immagine che sembra un
vecchio, alla gente non piacerebbe. Non riuscirei a vendere l’opera. Uno
scolpisce immagini come fossero uomini o donne giovani, per attirare la
gente».
Asti, maggio/agosto 2008
Alberto Salza
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