NOTA SULLA SCELTA DELLE
OPERE
(riduzione dal
catalogo della mostra)
a cura di
Bruno Orlandoni
La scelta
delle opere da presentare in mostra è stata vincolata da due
condizioni fondamentali. La prima era insita nell’idea che
stava alla base dell’operazione: presentare al pubblico un
esteso repertorio di opere africane di qualità, appartenenti
a collezioni private, inedite. La seconda era legata al tema
proposto: la donna. Questo aveva la funzione principale di
favorire una drastica riduzione del campo di scelta,
facilitando l’operazione. Il serbatoio in cui operare,
costituito da migliaia di opere dei tipi e formati più
diversi, si riduceva così di quasi tre quarti. La scelta di
escludere qualsiasi accessorio relativo alla donna (abiti,
oggetti d’uso femminili, ecc.) e di escludere ogni
riferimento di tipo sociologico al problema, riduceva
ulteriormente il campo, rendendo l’operazione più semplice,
praticabile nei tempi proposti dalla committenza. Il tema
“donna” veniva così progressivamente mutato nel tema “corpo
femminile”, nell’intenzione di evitare ogni tentazione di
lettura politica e di sottolineare, invece, che il soggetto
è affrontato esclusivamente sotto il profilo formale, in una
dimensione tutta interna al fatto artistico e alle sue
pertinenze, siano esse pertinenze antropologiche o di
sociologia dell’arte oppure problematiche stilistiche e
linguistiche.
Un terzo vincolo, infine,
era costituito dall’ambiente in cui esporre le opere. Lo straordinario
prestigio formale del complesso monumentale di San Pietro ad Asti
costituiva a un tempo un formidabile stimolo e un preoccupante onere. Il
problema era quello di dialogare con la qualità dell’ambiente senza
lederla o cercando di lederla nella minor misura possibile. L’ambiente
suggeriva comunque un tetto quantitativo alle opere da esporre che si
decideva di fissare attorno ai 200 pezzi circa, il 70% dei quali di
piccolo formato.
Dati questi parametri
iniziali, l’operazione di scelta si è articolata secondo alcune
direttrici fondamentali.
Il modo più ovvio per
impostare la definizione formale dell’oggetto della mostra è parso
quello di descriverlo in opposizione ad altri, più o meno simili, in
modo da farne emergere le caratteristiche, i dettagli, le specificità.
Così il modo più immediato per aprire il discorso definendo la forma
artistica del corpo femminile nell’arte africana è parso quello di
metterla in opposizione alla forma artistica del corpo maschile.
COPPIE. Nel caso della
scultura africana, l’operazione è favorita dal fatto che praticamente
presso ogni etnia, esiste la tipologia specifica della coppia, sia essa
intagliata in legno o in avorio, o modellata in terracotta, oppure fusa
in bronzo o battuta in ferro. Nella resa specifica della dicotomia
maschio/femmina, l’arte africana si muove secondo i ritmi più diversi.
Di fronte a quella articolata serie di varianti, che anatomisti e
specialisti di diversi settori hanno catalogato come “caratteri sessuali
primari” e “secondari” troviamo le soluzioni più estreme e tutte le loro
varianti intermedie. Corpi identici, in cui l’unica varianza è ridotta
alla presenza di un’appendice – spesso minuscola – tra le gambe
maschili, e di un forellino o di un taglio tra quelle femminili (con o
senza la presenza di due pallini sul petto in veste di seni), come nelle
terrecotte mambila (n. 2 e 4) o dakakari (n. 6), nelle figurette zande
(n. 8), nei bronzetti senufo (n. 9). In alcuni casi – come proprio nei
bronzetti senufo - l’unica differenza anatomica (la presenza dei seni
femminili) è confermata dalla presenza di oggetti portati come
attributi: così il vaso sarà attributo femminile in molte regioni
dell’arte africana, mentre ai maschi – guerrieri e cacciatori – sono
affidate armi (asce, coltelli) o bastoni di comando. A volte a queste
differenze minime si sommano delle varianti tecniche di difficile
spiegazione. Nelle figure lengola (n. 1), per esempio, le donne hanno le
braccia innestate all’esterno delle spalle, gli uomini le hanno al di
sopra. All’estremo opposto di queste rese minimaliste, troviamo esempi
in cui l’artista si lancia nella rappresentazione dei più sfumati
caratteri sessuali secondari, come nel caso delle figure Dan (n. 17), o
ancor più in quello dei deblé Senufo (n. 14) in cui sono rese in
maniera efficace le differenze tra altezza e rotondità delle natiche,
squadratura delle spalle, verticalità della colonna vertebrale e
presenza o meno di una leggera lordosi.
Spesso, gli esseri
raffigurati sono soprannaturali e si pongono come veri e propri
archetipi nei confronti degli umani. In questo senso, il fatto che
spesso la differenziazione non tenga conto dei volti – rigorosamente
uguali – come nel caso dei guardiani di villaggio lengola (n. 1), dei
“feticcini” perlinati bamoun (n.5) o degli antenati gurunsi (n. 10)
sembra assumere significati addirittura programmatici. Quasi a voler
significare che non sono le differenze di tratti somatici a determinare
la sostanza della differenza tra maschio e femmina. Così, nel
poggiatesta luba o prebembe (n. 11) la quasi totale identità delle due
figurette è mitigata solo da piccoli seni nella figura femminile e
ribadita da un’unica scarificazione sul fianco, che cita in maniera
abbastanza esplicita l’organo sessuale.
ILCORPO AMBIGUO: BIFRONTI,
FIGURE GIANIFORMI, ERMAFRODITI. Sia che le figure risultino
differenziate con chiarezza, sia che le varianti attengano al
limitatissimo campo del segnale, è evidente che l’artista africano nei
confronti della rappresentazione del corpo umano assume spesso un
atteggiamento astratto. Ciò attiene al fatto che al di là delle identità
personali, uomini e donne, maschi e femmine, vengono spesso assunti
nella loro natura universale, simbolica, come personificazioni di
principi generali reciprocamente connessi. Ciò dà luogo in molti casi a
raffigurazioni molto particolari: i bifronti.
I casi più comuni si
trovano nella scultura del Burkina Faso presso diverse etnie e in
particolare presso i Lobi, e in Congo soprattutto presso le popolazioni
del sudest, in particolare tra gli Hemba. Presso gli Hemba, anzi, gli
elementi decorativi bicefali a testa doppia, maschile (barbuta) su un
lato e femminile sul lato opposto, sono presenti su una grandissima
varietà di attrezzi, arnesi, oggetti: dai bastoni processionali, ai
poggiatesta, agli oggetti magici.
Spesso la figura bifronte
è risolta nella maniera più immediata tramite l’adesione schiena a
schiena di due figure umane, stanti, quasi complete, come nei casi della
kabeja makua hemba (n. 21), del grande palo lobi (n. 33), o del
feticcio teke (n. 25). A volte le due figure possono essere
inginocchiate o accosciate (n. 22). Più raramente le combinazioni
possono essere più particolari, realizzate tramite l’accostamento di due
metà, sinistra/destra maschio/femmina come in alcune sculture lobi (n.
28, 29). Tra i Lobi a volte si trovano intrecci anche a tre figure, di
notevole complessità (n. 37). In altri casi ancora, più semplici, più
che figure bifronti troviamo delle figure che sarebbe più corretto
definire semplicemente bicefale consistenti in un corpo, maschile o
femminile, su cui vengono innestate due teste fianco a fianco, come
nell’arpa mangbetu (n. 154), oppure davanti e dietro. Tra i Lega (n. 44,
47, 48, 49, 50) le teste si moltiplicano e su un’unica testa possono
apparire più nasi e più bocche (n. 41, 43) in un gioco di
moltiplicazione che ritroviamo nell’arte orientale o nelle droleries
dell’arte medievale. E ancora l’arte orientale torna alla memoria di
fronte alla rara soluzione quadrifronte della donna con coppa luba (n.
52).
In alcuni casi l’ambiguità
si combina in una figura unica dando luogo a veri e propri ermafroditi.
Seppure rari, sono comunque più diffusi nell’arte africana che presso
altre culture figurative. Frequenti, poi, i casi in cui l’ambiguità si
risolve all’interno di un’unica figura, nell’assoluta impossibilità di
definire il sesso. E’ il caso di quasi tutte le teste biery dei
Fang (n. 39, 40) come di molte figure mumuye. Quella che esponiamo (n.
64) può forse ricondursi ad un genere femminile perchè in ambito mumuye
sono solo le donne a deformarsi i lobi degli orecchi. Spesso questa
ambiguità raggiunge il culmine nella rappresentazione dei volti.
Prescindendo dalla presenza di segni distintivi utili a definire il
genere, si deve osservare come spesso volto maschile e volto femminile
siano raffigurati secondo canoni pressoché identici. Molte figure tabwa,
(n. 61, 62) pur di notevole raffinatezza compositiva, sono difficilmente
qualificabili sotto il profilo sessuale. Così le ricerche più recenti
affermano che le maschere bianche del Gabon, considerate “femminili”
dalla critica occidentale, in realtà possono essere anche maschili (n.
73 – 76). Anche la presenza o meno della barba, che spesso è una delle
forme di varianza più immediata ai nostri occhi, non sempre è
sufficiente a definire sessualmente le entità rappresentate dagli
artisti. Così esponiamo alcune figure femminili in cui la presenza di
labret o ornamenti labiali (n. 67, 275) di vario genere e tipo o di
vere e proprie barbe finte (n. 68, 70), pone problemi di interpretazione
che spesso possono nascondere autentici risvolti “politici”, relativi
alle funzioni e ai ruoli di potere esercitati dai personaggi
rappresentati.
Ambiguo anche il problema
della resa delle ernie ombelicali, presenti con enorme frequenza nelle
figure umane africane, e di solito rappresentate in maniera un poco più
accentuata (ma non sempre) nelle figure femminili, fino a diventare una
sorta di contrappeso visivo dei seni (n. 84 e foto di copertina).
IL CORPO COME TERRITORIO.
L’arte spesso è stata intesa e usata anche come strumento privilegiato
di visualizzazione del simbolico. Anche la rappresentazione di ciò che
ci appare come più naturale, il corpo umano, può assumere valori e
significati meno ovvi e naturalistici di quanto una prima osservazione
non sembrerebbe suggerire. Così presso alcune culture – nella
fattispecie fra i Luba – il corpo, e in particolare spesso proprio
quello femminile, in quanto corpo dell’antenata progenitrice, diventa
una complessa metafora del territorio antropizzato (n. 114, 118, 120,
122). Più spesso ancora il corpo viene annesso agli oggetti d’uso più
diversi, dai pettini (n. 45, 46, 62, 153, 152, 237), agli strumenti
musicali (n. 97, 154, 263), ai cucchiai (n. 86, 93) e ai contenitori (n.
95, 219, 254), ai sedili (n. 99, 223, 259, 262), in un’operazione che a
prima vista potrebbe apparire una disumanizzante oggettualizzazione del
corpo umano, e che invece, spesso, è l’operazione opposta, di
umanizzazione dell’oggetto d’uso che in questo modo viene annesso alla
dimensione familiare del quotidiano.
DECORAZIONI E
ACCONCIATURE. Come il territorio antropizzandosi si trasforma attraverso
l’intervento della cultura sulla natura, così il corpo umano – spesso
proprio quello femminile più di quello maschile – crescendo, cioè
entrando nella società degli adulti, viene trasformato dalla cultura
attraverso l’imposizione di un’ampia serie di segni. La scultura
africana registra in maniera efficace la complessa trama di segni a
rilievo – scarificazioni e cheloidi – di cui il corpo si riveste nel
corso dei riti di iniziazione e di passaggio di età. Anche in questo
caso funzioni (e forme) e significati mutano nei luoghi e nel tempo. Le
complesse trame delle scarificazioni che decorano le sculture lulua (n.
134, 135, 136, 137) erano già scomparse dai corpi di uomini e donne
Lulua quando questi vennero raggiunti dai primi occidentali, poco dopo
la metà dell’Ottocento. Lo stesso per i Mangbetu che conservavano solo
più l’uso di deformare i crani dei neonati allungandoli (n. 154, 155).
Ancora oggi invece, presso alcuni gruppi – per esempio gli Yoruba – la
forma della scarificazione veicola espliciti significati di
appartenenza, tribale, clanica, familiare, di classe, di età. Presso
altri ha valenza esclusivamente estetica: presso gli Hemba, per esempio,
sembra che la pratica della scarificazione reciproca tra maschio e
femmina rientri nell’ambito di un esplicito gioco erotico di coppia.
Anche segni di dolore e di malattia, quanto mai frequenti in Africa,
possono trasformarsi in trame decorative. Così i chiodi che costellano
corpi e volti di molte sculture songe (n. 80, 264) non rappresentano
cheloidi, ma le tracce delle pustole del vaiolo.
Al di là della loro
registrazione nella scultura, non bisogna poi dimenticare come la stessa
pratica delle decorazioni a cheloidi sia in fondo una vera e propria
forma di scultura sul corpo che riconferma – se ce ne fosse bisogno –
quanto il talento artistico africano sia prima di tutto talento
scultoreo, plastico.
Accanto alle
scarificazioni si notano le acconciature, di straordinaria complessità e
bellezza. La scultura le rende con raffinata precisione, spesso senza
inventare nulla, solo riproducendo quelle che sono già di per sé
straordinarie sculture o bassorilievi. E così ecco un apparire e
moltiplicarsi di trecce e treccine (n. 212, 276), chignon (n. 145, 172),
finte corna allusive ad animali scelti come simboli di potere (n. 68,
185), autentici cimieri realizzati con capelli riportati o complesse
intelaiature di fango e stecchi (n. 138, 150), fino ad arrivare al
kaposi, l’acconciatura crociata portata da uomini e donne Hemba (n.
143, 177) che è un autentico cosmogramma simboleggiante le direzioni
dello spazio e del mondo.
GESTI E POSIZIONI. Un
ulteriore capitolo che si è ritenuto opportuno documentare è quello
della varietà di gesti registrati. Capitolo relativamente limitato.
L’arte africana è da un lato fortemente convenzionale, da un altro lato
è tendenzialmente espositiva e affermativa e molto poco narrativa. Le
posizioni documentate, i gesti, gli atteggiamenti, sono quindi pochi. Si
può affermare che un buon 70% delle sculture africane note rappresenta
la figura umana nuda, in piedi, di solito l’uomo con le mani sul ventre,
la donna con le mani sul seno. Un altro 25% di sculture rappresenta
uomini e donne seduti in trono, oppure accovacciati o inginocchiati (in
quest’ultimo caso soprattutto le donne). Nel rimanente 5% (ma forse
anche meno) si concentrano tutte le altre possibilità di gesto o
posizione: figure con le mani sul capo (n. 245, 246) o portate al mento
(n. 248), figure sedute a terra (n. 219), figure equestri. Rarissime le
figure voltate (n. 267) o più o meno ruotate, perché l’arte africana
rifugge dalle asimmetrie; e altrettanto rare le vere e proprie “scene”
(n. 204, 270). Quasi unici i pezzi che documentano altre situazioni:
come il bracciale a forma di ballerina che compie l’arco dorsale (n.
268), che in Piemonte non potrà non riportare alla memoria quello che è
uno dei gioielli del Museo Egizio di Torino: l’ostrakon dipinto con una
ballerina raffigurata nella stessa posizione.
IL CORPO ASTRATTO, IL
CORPO CONCRETO. Intersecando questi passaggi più o meno articolati, la
scelta si è sviluppata poi nell’intenzione di presentare il maggior
numero possibile di varianti formali del tema primario: la donna; dalle
soluzioni più astratte dell’arte chamba (n. 107), dogon (n. 102), bamana
(n. 94), metoko (n. 108), a quelle più espressioniste proposte dalla
scultura songe (n. 156-162), bangwa (n. 222), kuyu (n. 307), a quelle di
quel naturalismo idealizzato, che potremmo quasi definire classico in
ambito africano, della produzione yoruba (n. 199-203), kongo (n.
280-285), luba (n. 180), baule (n. 192).
MATERNITA’. Conclusione
per molti versi necessaria, vista la frequenza del soggetto, una
rassegna di maternità che, dato il loro palese significato anche
politico – la madre in Africa è spesso colei attraverso cui passa il
potere – possiamo dire stare all’insieme dell’arte africana come le
Madonne con bambino sono state all’insieme dell’arte cristiana europea.
A proposito delle maternità si potranno fare alcune osservazioni
conclusive. La prima è che i bambini, in quasi tutte le maternità, non
sono qualificabili sotto il profilo sessuale. Sono asessuati. Il bambino
non è né maschio né femmina, né uomo, né donna. In Africa uomini o donne
non si nasce, ma si diventa; e si diventa tali solo con i riti di
passaggio e di iniziazione. La seconda è che l’assoluta ieraticità, la
compostezza, la maestà che caratterizza le figure adulte, nelle figure
dei bambini scompare e lascia posto ad una grande varietà di posizioni e
di piccoli gesti. Ciò, da un lato, sembra significare che il diventare
adulto obbliga l’individuo a selezionare, scegliere, limitare i gesti
attraverso cui presentarsi e proporsi al prossimo. Da un altro lato è
testimonianza del fatto che la limitatezza di gesti e posizioni
dell’arte africana non è la conseguenza di limitate capacità espressive.
Al contrario è un’esplicita scelta di linguaggio: un vero e proprio
canone comunicativo come nel caso dei kouroi greci, o dei faraoni
egiziani, racchiusi nei margini ristretti di una loro gestualità
misurata e controllata.
Questo il percorso della
mostra. I poco più di duecento oggetti esposti sono la selezione
effettuata – come si è detto – all’interno di un serbatoio molto più
ampio. A parte qualche presenza forzata dall’importanza concettuale
degli oggetti, i parametri fondamentali che hanno direzionato le scelte
sono stati la qualità formale delle opere e in alcuni casi la loro
palese importanza storica. Nella mostra si troveranno alcune opere
attribuibili con buon margine di sicurezza a scultori e atelier già
individuati e studiati dagli specialisti del settore o altri capolavori
riconducibili ad ambiti di una certa rarità. Così si può andare dagli
ibeji yoruba attribuibili ai vari Onamosun di Iperu, Adugbologe,
Bangboye, Esubiji (nn. 199-203), alla figura di antenato luba – che
esponiamo perché raffigurante quasi di certo un ermafrodito, oltre che
per la qualità – del cosiddetto “maestro dei Kunda” (n. 66), alla
maschera Ivili riconducibile ad un atelier operante prima del 1867 in
Gabon (n. 73), alle due opere attribuibili a quello che è di certo il
maggior artista kuyu fin qui documentato (nn. 16 e 307), allo sgabello e
al bastone di comando attribuibili ad uno dei più raffinati atelier
operanti in un’indefinita area di confluenza tra Songe e Luba (nn. 126,
262), alla figura di antenata attribuibile ad un altro raffinatissimo
atelier songe (n. 160). Per la loro rarità si possono segnalare
l’antenata buyu (n. 70), il portafrecce sankadi (n. 234), la donna
seduta a terra idoma (n. 219), il bifronte teke (n. 25), la sedia a
cariatidi e schienale di area luba (n. 223-224), tutti oggetti
riconducibili a tipi di cui si conoscono pochissimi esemplari. Sotto il
profilo della pura qualità artistica vanno segnalate tra le altre la
maternità tumbwe (n. 271), la figura mumuye (n. 64), la coppa koro (n.
90), le antenate hemba (nn. 175 e 185) e l’altra antenata luba o hemba
con coppa e ascia sulle spalle (n. 180), la coppia di deblé
senufo (n. 14), la grande figura dogon (n. 250), le due figure femminili
baule (n. 173 e 192). A conferma del fatto che la qualità artistica poi
non è necessariamente misurabile a metri o a pesi, invitiamo ad
osservare con attenzione gli oggetti di piccolo formato. Spesso la loro
qualità e monumentalità non sono inferiori a quelle degli oggetti
maggiori tanto che, onde non trarre in inganno, si è deciso di inserire
nelle sintetiche didascalie del catalogo anche l’indicazione della
misura, a volte veramente fuorviante perché nasconde in pochi centimetri
oggetti di qualità superiore.
Asti, maggio/agosto 2008
Bruno Orlandoni
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