Massimo Di Stefano
PRIMITIVISMO OGGI
Un approccio agli effetti delle culture
“altre” sull’arte del xx secolo
Il termine Primitivismo è etnocentrico, ed è
logico che sia così, in quanto esso non si riferisce alle arti tribali in
sé stesse, ma all’interesse e alla reazione che esse suscitano in
occidente. Il Primitivismo è perciò un aspetto dell’arte moderna e non
dell’arte tribale. In questo senso il termine è paragonabile al francese
japoinisme, che non si riferisce direttamente all’arte e alla cultura del
Giappone, ma al fascino suscitato da questa cultura in Europa.
Il termine Primitivismo fu usato per la
prima volta in Francia nel XX secolo ed entrò formalmente nella lingua
francese quale vocabolo strettamente legato alla storia dell’arte
attraverso l’opera in sette volumi Nouveau Larousse Illustré, pubblicata
tra il 1897 e il 1904. La definizione del Larousse rifletteva l’uso del
termine tipico della metà del XIX secolo in quanto, i “primitivi” in
questione, erano soprattutto gli artisti italiani e fiamminghi del XIV e
XV secolo. Il significato contemporaneo di arte Primitiva, in larga misura
sinonimo di oggetti tribali, è quindi una definizione propria del XX
secolo. Nei primi decenni del Novecento si assistette infatti sia ad un
mutamento del significato che ad un restringimento dell’ambito di quella
che era considerata arte primitiva. Con la scoperta delle maschere e delle
figure scolpite dell’Africa e dell’Oceania da parte di Vlaminck, Derain,
Matisse e Picasso, intorno al 1906, prese l’avvio una interpretazione
strettamente modernista del termine. A Parigi, il termine “art négre”,
negli anni precedenti la Prima Guerra mondiale, incominciò ad essere usato
per definire l’arte primitiva e avrebbe dovuto essere riservato per
delimitare la sola arte africana, ma il termine fu interpretato in modo
troppo libero fino a giungere ad indicare universalmente anche l’arte
oceanica. Fu solo negli anni venti che gli stili di corte giapponese,
egiziana, persiana, cambogiana e di altri paesi cessarono di essere
chiamati primitivi e la parola finì per essere applicata principalmente
all’arte tribale.
Il progressivo cambiamento di significato
del termine, dopo il 1906, fu la conseguenza di un cambiamento di gusto.
Parallelamente l’arte di corte precolombiana godette di un interesse
relativamente limitato tra gli artisti di avanguardia nei primi anni del
XX secolo, ad eccezione di Henry Moore, dei pittori dei murales messicani
e, in misura minore, di Giacometti. Picasso non era il solo a trovarla
monumentale, ieratica e apparentemente ripetitiva. La capacità inventiva e
la varietà percepita nell’arte tribale erano molto più nello spirito
dell’iniziativa e della sensibilità modernista.
Il termine non ha valore negativo e quando
Picasso affermò che “la scultura primitiva non è mai stata superata” non
vide nulla di contraddittorio. Il termine ha un significato che non è meno
positivo di quello proprio di qualsiasi altra designazione estetica
compresi i termini Gotico, Barocco, Impressionismo, all’origine coniati in
senso dispregiativo in quanto non compresi.
Ad eccezione di Gauguin, nessun artista del
XX secolo mostrò un serio interesse artistico per l’arte tribale, sia
dell’Oceania che dell’Africa. Gauguin è considerato il punto di partenza
dello studio del Primitivismo dell’arte moderna, ma il suo ruolo è stato a
lungo frainteso o interpretato in modo troppo semplicistico poiché il suo
Primitivismo era più filosofico che estetico, aveva aperto nuove vie di
accordo fra il primitivo e il modo di concepire la creatività moderna. Le
manifestazioni dell’arte primitiva erano diventate un vero e proprio
strumento per la riappropriazione della propria identità come un processo
di rinnovamento del linguaggio delle forme che, giudicando ormai esaurite
tutte le possibilità di emozioni visive tradizionali, sembrava voler
ritornare alle origini stesse dell’esperienza creativa. Sappiamo che alla
base del rinnovamento radicale dell’arte del XX secolo, a fianco di una
linea positivistica c’era anche una forte matrice irrazionale dovuta
soprattutto ai contrasti sociali. Nei primi decenni del secolo si
esaltavano i misteri, l’esoterismo, l’individualismo, l’empatia e tutte
quelle tendenze magico-simboliche che sfociavano in nuove ondate di
spiritualismo, spesso carico ambiguamente di sensi, si andava verso la
scoperta di civiltà lontane e remote, il tutto filtrato da una forte
soggettività.
L’interesse per l’arte primitiva, iniziato
con Van Gogh e Gauguin, crebbe da allora di anno in anno: l’idea del
primitivo era profondamente penetrata nella coscienza degli artisti
europei e fin dal 1904, il pittore Vlaminck si interessò all’arte
primitiva, e da Vlaminck questo interesse passò a Derain e da Derain a
Matisse. Già prima del 1907 Derain e Matisse cominciarono a collezionare
sculture negre e, secondo Gertrude Stein, Picasso ebbe il primo contatto
con la scultura africana grazie a Matisse. Si stabiliva così una catena
ininterrotta di influenze che percorrerà tutto il XX secolo. Lo
spostamento dal piano percettivo a quello concettuale iniziato da Gauguin,
portò Vlaminck ad acquistare una maschera Fang che venduta all’amico
Derain, divenne la principale icona tribale del Primitivismo del XX
secolo. Essa divenne così famosa che il mercante d’arte d’avanguardia
Ambroise Vollard ne fece fondere una replica in bronzo.
Il fondamentale apporto che il Primitivismo
ha dato alla ricerca artistica va tuttavia diviso in due momenti
essenziali, il primo è quello che si inserisce perfettamente nel
cosiddetto periodo decadente-simbolista, riferito all’esperienza romantica
di Gauguin che oltre a rivoluzionare la sua ricerca pittorica
rivoluzionerà anzitutto la sua vita in termini filosofici. Il secondo
momento è quello relativo alle esperienze di Matisse e di Picasso che
affronteranno la questione in una versione stilisticamente più perentoria
e in un certo senso emotivamente meno partecipe. L’interesse si sposterà
quindi dal mito della fuga dall’occidente, per giungere a nuove
considerazione di tipo formale.
In Picasso, la strada che lo condurrà al
Cubismo, se da una parte sarà segnata dagli insegnamenti di Cezanne,
dall’altra, forti saranno le sollecitazioni del Primitivismo. La visita
fatta nel 1907 al Musée d’Etnographie del Trocadéro rivelò a Picasso un
significato ed una dimensione dell’arte primitiva che fino a quel momento
aveva ignorato: aveva scoperto che queste maschere, queste sculture erano
prima di tutto “cose magiche”, “mediatrici”, “tramiti” tra l’uomo e le
forze oscure del male, potenti al pari degli spiriti “minacciosi” presenti
nel mondo, e “ strumenti” ed “armi” con cui liberare se stessi dai
pericoli e dalle ansie che affliggono l’umanità. Nel 1907 la sala africana
non era, come la si potrebbe immaginare oggi, una collezione classificata
secondo un metodo ed un criterio scientifico, con indicazioni chiare ed
esplicative, ma era molto più simile ad un piccolo magazzino
sovraffollato, dove alcune delle più stupefacenti produzioni mai concepite
dallo spirito umano erano state frettolosamente collocate. Tuttavia questo
universo sempre caratterizzato dal sacro, non presentava effigi di un
passato popolato da divinità vendicative e da mostri demoniaci. Esso
invece univa casualmente spiriti sotterranei, antenati, immagini benevole
di maternità e feticci protettivi. Come universo quindi permetteva di
cogliere il mescolarsi del sacro con l’esperienza dell’uomo,
l’intersecarsi del rituale con la vita di ogni giorno. Esso proponeva un
altro mondo, intermedio ma credibile, vivente ed umanizzato: un invito al
sovrannaturale ma in certo qual modo tenuto sotto controllo. Dobbiamo
considerare Picasso, nell’ambito dell’avanguardia artistica, come colui
che ha affrontato nel modo più significativo il rapporto con l’arte
primitiva, l’artista che ha saputo cogliere il problema di come la visione
della vita dei primitivi potesse in qualche modo modificare la cultura
moderna. Questa nuova visione del mondo era dunque la fusione di
un’ambivalenza: Cezanne e il Primitivismo, l’unione di queste due
posizioni antitetiche genererà uno sguardo allargato sulla cultura di
tutti i tempi e di tutti i paesi.
La retrospettiva che Parigi dedica nel 1906
a Cezanne, dopo la sua morte, diviene fonte di ispirazione per la nuova
generazione di artisti d’avanguardia. Anche se Cezanne non riveste un
ruolo predominante nella scoperta del Primitivismo è però indubbiamente
decisivo nell’aver reso possibile agli artisti più giovani di comprendere
l’importanza dei valori plastici che le sculture antiche posseggono:
Cezanne fece da guida verso un nuovo equilibrio tra disegno superficiale e
modellato. Le drastiche semplificazioni della forma, la sua abilità nel
raggiungere effetti scultorei per mezzo di piani sfaccettati di colore,
aprono nuove possibilità agli artisti ponendoli di fronte ad un’inedita
sfida. Il nuovo interesse acquisito di conseguenza per la forma scultorea,
presente nell’opera di Picasso e di Bracque, è spiccato anche nell’opera
di Vlaminck e di Matisse. Sembra che questi due artisti si siano accostati
quasi contemporaneamente alla scultura africana, ma le motivazioni di
Matisse sono di gran lunga più significative e importanti di quelle di
Vlaminck. L’interesse di Matisse per l’arte africana si accentuerà nella
primavera del 1906 in occasione del suo viaggio in Nord-Africa, questo
momento coincideva con l’ultima fase del cosiddetto periodo Fauves, quindi
un periodo di transizione tra le sue prime opere direttamente percettive,
essenzialmente post-impressioniste e i suoi stili successivamente più
sintetici. Fu quindi solo dopo la conclusione del ciclo Fauves, quando la
sua pittura arrivò ad essere più scultorea e i suoi colori sempre meno
intensi, che Matisse fu in grado di rivalutare le sue prime reazioni a
Cezanne e di capire in che modo potesse fare suoi i principi plastici
dell’arte tribale. In Vlaminck la rivalutazione del Primitivismo avviene
in senso romantico, in un atteggiamento simile a quello di Gauguin, sempre
mirato alla ricerca di una espressività istintiva e di una “barbara
impetuosità”. Anche Derain muove dalla lezione di Gauguin rivolgendosi
però alla scultura, come è leggibile nelle prime esperienze dirette sulla
pietra risalenti al 1907.
Nella cultura moderna, a differenza dal
passato, l’atteggiamento verso il mondo primitivo si trasferisce su un
piano più critico. Potremmo dire che l’interesse si sposta da una “vita
primitiva” a un “arte primitiva”. A ciò si giunge perché mai come nel XX
secolo, avviene nell’arte un radicale cambiamento prima che
nell’esperienza estetica, nel pensiero che la presiede. L’influenza
inoltre delle prime raccolte etnografiche pubbliche presenti nelle grandi
città europee accrescono e sono in linea con il mondo esoterico di quegli
anni, che confluiscono in una vera e propria coincidenza tra arte e vita.
In Germania gli artisti espressionisti della
Brucke e del Blaue Reiter furono in grado di coprire, accanto ai loro
studi, le fonti esotiche dalle quali erano attratti. Paul Klee dichiarò
che: “Nell’arte si può cominciare anche da capo, e ciò è evidente, più che
altrove, nelle raccolte etnografiche.”
Dobbiamo agli esploratori, ai coloniali e
agli etnologi l’arrivo in occidente di questi oggetti, ma dobbiamo
soprattutto alle convinzioni dei primi artisti moderni, la loro promozione
ed elevazione allo status stesso di arte, dal rango quindi di curiosità e
manufatti artigianali a creazioni artistiche di altissimo livello. La
convinzione propria da parte degli artisti dell’avanguardia che ci fosse
qualcosa da apprendere dalla scultura dei popoli tribali, un’arte le cui
forme e le cui concezioni erano diametralmente opposte ai canoni estetici
dominanti, poteva essere intesa dalla cultura borghese solo come un
attacco rivolto ai suoi valori.
Il fatto che l’ammirazione degli artisti
moderni per questi oggetti tribali fosse diffusa negli anni 1907-1914 è
ampiamente documentato da fotografie degli interni degli studi, da
citazioni e, naturalmente dalle loro stesse opere. Artisti quali Picasso,
Bracque, Matisse, Leger, Brancusi, Giacometti, Modigliani, erano
consapevoli della complessità concettuale e della raffinatezza estetica
della miglior arte tribale. La semplicità era solo apparente, la riduzione
all’essenziale non era, come si credeva generalmente, ingenuità, ma il
frutto di una elaborazione meditata, un’economia che implicava la
distillazione della complessità. Tutta l’arte moderna trarrà insegnamenti
da queste sorgenti di cultura: la sintesi, il riduzionismo
caratterizzeranno il XX secolo. Il salto di qualità compiuto dai Fauves,
dai cubisti, dall’espressionismo tedesco, dal plasticismo primario di
Brancusi e Giacometti, da Dada e Surrealismo consiste proprio dall’aver
saputo comprendere istintivamente la qualità artistica dell’arte
primitiva, anche se i valori formali che essi vi scorsero, nulla avevano a
che vedere con le reali intenzioni dei loro autori. Le maschere
dell’Africa e dell’Oceania offrivano però agli artisti dell’avanguardia
quelle soluzioni di sintesi plastica raggiunta attraverso la scomposizione
dei piani che stavano perseguendo ognuno secondo la propria individualità,
dopo l’esperienza di Cezanne. Gli espressionisti tedeschi offrivano ad
esempio, la deformazione del segno, la disimmetria e l’uso simbolico del
colore primitivista ma attingevano anche dalle fonti dell’arte popolare
dell’Europa Orientale.
I cubisti mostrarono una netta preferenza
per l’arte africana a differenza dei surrealisti i quali si dichiararono
più entusiasti per gli oggetti provenienti dall’Oceania. Nella “carta
surrealista del mondo”, l’isola di Pasqua è riprodotta grande quasi quanto
l’Africa. Questa netta e precisa diversità di preferenza fu forse
determinata dalla relativa disponibilità di oggetti provenienti da quelle
zone, ma si pensa che derivasse in primo luogo dalle fondamentali
differenze tra Cubismo e Surrealismo.
Il Cubismo era ancora radicato e legato al
mondo del visibile, il Surrealismo, come molta arte oceanica (almeno in
Melanesia), era rivolto soprattutto verso il mondo dell’immaginazione,
verso la rappresentazione del fantastico piuttosto che dalla realtà
visibile. Il motivo di scelta da parte dei cubisti per le opere africane è
dato dalla tridimensionalità delle sculture mentre, al contrario, si
rimane colpiti dalla relativa piattezza e dalla “incorporeità” di certe
sculture oceaniche poiché l’occhio viene attratto dai contorni esterni o
dal disegno o dalla pittura che ne decora la superficie. Nella scultura
oceanica non si ha la sensazione di quella massa scultorea tattile che
costituisce l’essenza della maggior parte della scultura africana. Molte
opere oceaniche sono realizzate con la corteccia, con il fango o con altri
materiali scultorei “teneri”, “malleabili”, che sono già di per sé un
indice di tale pittoricità. La migliore scultura africana è di solito
interessante vista da ogni angolatura, la statua Bamana, ad esempio, ci
obbliga ad ammirarla da ogni lato, mentre spesso la pittoricità degli
oggetti melanesiani limita la prospettiva dell’osservatore. Nella scultura
africana l’interno della massa non sembra mai plasticamente inerte, così
come in molte sculture egizie e in certi altri stili arcaici. Allo stesso
modo dello scultore arcaico, l’artista tribale considera la frontalità
come punto di partenza ma, diversamente dal primo, va oltre. Gli scultori
oceanici sacrificano la massa lavorando in modo pittorico su di un unico
piano, riuscendo però a far gioco dello spazio in cui si muovono le
figure. Nella scultura africana lo spazio viene misurato piuttosto che
modellato e, come nell’arte classica, serve essenzialmente per mettere in
rilievo i solidi. Nell’arte della Melanesia, lo spazio diventa una
componente estetica dell’artista. La scultura africana viene definita
“tattile”, quella Oceanica “visiva”.
La scultura dell’artista surrealista Max
Ernst, del 1934, “Testa d’uccello” è sorprendentemente somigliante ad una
maschera africana del popolo Tusyan, mentre la scultura in bronzo del
1926-1930 “Figura” di Lipchitz, ed il suo operato in genere è collegabile
con l’arte dei Dogon. Alcune tipiche sculture oceaniche come i Malanggan
della Nuova Irlanda, condividono con le opere di Matta un linguaggio di
forme aperte e un disegno da cui rifuggono sia i cubisti che gli artisti
africani. Matta come Ernst e altri artisti surrealisti fu un collezionista
di queste sculture e, come i Malanggan, le figure di Matta sono assalite
da animali mostruosi. L’arte oceanica e della costa nord-occidentale tende
verso l’espressione del rituale, è simbolicamente narrativa. Tutta l’arte
africana, data la sua tendenza alla frontalità e alla simmetria è più
iconica che narrativa. Nel “Mostro melo” Calder, molto vicino ai
surrealisti degli anni trenta, crea con dei rami di melo una scultura
assolutamente insolita nella sua opera, che rispecchia in pieno il fascino
esercitato su di lui da una figura Imunu. Come la figura Imunu, il cui
carattere “serependico” doveva per forza fare presa sul gusto
d’avanguardia, il pezzo di Calder è creato in gran parte con oggetti
trovati che, dopo essere stati scelti, sono stati modificati solo
minimamente. Sia Calder che l’artista della Nuova Guinea individuarono il
mostro ancora latente nel materiale grezzo della natura. Questa acuta
preveggenza esercitava un fascino particolare sui surrealisti che
avrebbero definito la figura Imunu e il “Mostro melo” come “oggetti
trovati aiutati”.
Il tema dei mostri nella natura verrà anche
affrontato da Klee e Mirò ma il Minotauro di Picasso, sempre negli anni
trenta, bestia nella testa invece che nel corpo, rivela una verità più
inquietante: le reali mostruosità provengono dalla mente dell’uomo, non
dalla natura.
La tendenza modernista, accentuata in
seguito alla familiarità con le sorprendenti proporzioni di certi oggetti
tribali, portano Giacometti a realizzare delle figure allungate. E’
probabile che Giacometti abbia visto la statua Nyamwezi della Tanzania
appartenuta ad Andre Lefebvre, uno dei grandi collezionisti di arte
moderna, ma l’artista conosceva anche bene, per esempio, le figure
Etrusche di Villa Giulia a Roma.
Riconoscere in una maschera polimaterica la
stessa importanza che in altra forma possiedono l’Afrodite di Prassitele o
la Gioconda di Leonardo, ha avuto per la cultura occidentale implicazioni
di portata grandissima: l’estetica tradizionale, basata essenzialmente sui
concetti del “bello” e del “vero”, sin dai tempi di Platone e di
Aristotele, vede travolti i suoi valori nel momento in cui l’arte diventa
una qualità non assoluta, ma relativa alle funzioni dell’oggetto e alla
cultura della società che la produce. Analogamente, riconoscere dignità
dell’arte ad un oggetto funzionale realizzato da un anonimo artigiano di
una qualunque cultura “primitiva”, significa abolire la tradizionale
distinzione tra opera d’arte unica, irripetibile, e manufatto artigiano,
riproducibile all’infinito. L’espressione, la volontà concettuale, hanno
progressivamente preso il sopravvento sulla forma, ancora vincolante sino
alla metà del secolo, nonostante l’automatismo e la liberazione
incontrollata dell’inconscio proposti da Dada, dal Surrealismo,
dall’Informale, la ripetitività e la riproduzione in serie sono diventate
un elemento costitutivo dell’operare artistico.
E’ sempre Picasso ad introdurre in occidente
l’unione di materiali eterogenei. L’origine di tali commistioni gli era
nota attraverso la conoscenza delle arti tribali che realizzavano le
sculture con tessuti, corde, rafia, corteccia, metallo, fango e “oggetti
trovati” insieme al legno e ad altri materiali. L’uso che Picasso faceva
dei materiali era personalissimo: estraeva il principio insito in essi per
poi appropriarsene e servirsene per i propri fini. L’impiego di tali
materiali, comunque, sia da parte dei surrealisti che da parte dei
dadaisti, come ad esempio la “Maschera” di Janco, rifletteva un conscio
desiderio di evocare i prototipi primitivi. Anche in Italia Medardo Rosso,
Arturo Martini, Marinetti e il Futurismo, fino a Melotti, Mirko, Consagra,
fra gli altri, subiscono il fascino del Primitivismo. In America nel 1950
lo scultore David Smith realizza l’opera “Tanktotem I”, prima di una lunga
serie di opere che avrebbe chiamato Totem, lavori a metà strada tra la
figura umana e il segno astratto. L’interesse per il Totem e il
trattamento del materiale in vista della creazione di un emblema o di un
segno non sono problematiche che appartengono unicamente a Smith ma
all’intera generazione di cui faceva parte, quella cioè degli
“espressionisti astratti”. La maggior parte di loro in pittura o in
scultura ha realizzato, verso la fine degli anni quaranta, oggetti che
qualificavano come Totem o i cui titoli lasciavano intravedere un
interesse per le pratiche totemiche. In scultura Louise Nevelson, Isamu
Noguchi, Louise Bourgeois, in pittura Pollock, Gottlieb, Rothko, Still,
Newman, ribadivano attraverso la frontalità, la centralità, la grande
dimensione, la natura, il mito del primitivo. In Europa Dubuffet prima e
il gruppo Cobra poi, estenderanno il desiderio di sconfinamento verso
nuovi territori mediante gli impulsi liberatori dell’arte primitiva.
L’attenzione verso i rituali estatici, le
cerimonie sociali, le iniziazioni, i tatuaggi, l’uso del corpo come
tramite per altri piani dell’esistenza, pratiche legate ai popoli
primitivi, viene introdotta nell’arte in Europa ed in America, dopo la
seconda guerra mondiale, da John Cage, Allan Kaprow, dal gruppo Fluxus, da
Ives Klein, da Piero Manzoni, influenzati dal pensiero di Duchamp e dai
suoi gesti dadaisti, come il taglio dei capelli a forma di stella. In
America fu Pollock a cambiare radicalmente i rapporti tra corpo e pittura.
In Giappone il gruppo Gutai incentrava processi creativi spesso sottoforma
di “azioni”: Shiraga “dipingeva” le proprie tele con i piedi mettendo
letteralmente il proprio corpo all’interno dell’opera. Allan Kaprow e Jim
Dine organizzavano “happenings”, eventi in cui le tele venivano ripensate
come spazi tridimensionali. Klein usava il corpo delle sue modelle come
fossero “pennelli”. Claes Oldemburg e Carolee Schnemann rendevano
partecipe il pubblico del processo creativo dei loro happenings. Georges
Maciunas, Nam June Paik, Yoko Ono rivendicavano con gli eventi Fluxus la
forza espressiva dell’elementare, relazionando la realtà in quanto tale e
la sua capacità di produrre spettacolo. L’Azionismo viennese inscenava
violente azioni in cui il corpo “rituale” umano ed animale era
protagonista estremizzando l’orgiastico e il tragico, analizzando le
radici del rapporto tra carne e spirito, tra sacralità e ritualità
sacrificale.
Il rapporto tra individuo e collettività,
tra personale e politico è alla base anche dell’operatività della Body
Art. Negli anni settanta l’artista francese Gina Pane nella performance
“Azione sentimentale” si fa penetrare delle spine di rosa nelle vene del
braccio e con una lametta si incide il palmo della mano facendone sgorgare
sangue. Più tardi l’uso delle nuove tecnologie porterà alcuni artisti ad
esplorarne le possibilità espressive per riformare o deformare il proprio
corpo, come le protesi di Sterlac o i segni della chirurgia plastica sul
corpo e sul viso di Orlane.
Il termine primitivismo assume sempre di
più, intorno alla metà degli anni sessanta, la connotazione di primario,
di primarietà. Questa nuova fase dell’arte internazionale si
contraddistingue per un superamento radicale dei limiti tradizionali, del
fare pittura e scultura, per un rapporto più stretto fra arte e ambiente,
per l’utilizzazione di materiali direttamente prelevati dalla realtà
urbana e naturale: dal minimalismo di Carl Andre e Robert Morris, alle
azioni “sciamaniche” di Beuys, - aspirazioni al recupero di quella armonia
primordiale perduta, di denuncia ecologica, di invito al risveglio sociale
- agli interventi di Land Art di Smithson e Heizer, ai passaggi rituali di
Richard Long segnati dalle pietre, fino alle installazioni dell’Arte
Povera di Merz, Kounellis, Pistoletto, Calzolari, Penone, Boetti, dove
l’artista tende alla dilatazione della sfera del sensibile attraverso la
materia in cui si scopre come strumento di conoscenza, per una maggiore
acquisizione apprensiva della natura.
Pino Pascali espone nel 1968 all’Attico di
Roma oggetti arcaici: la mostra è l’ambientazione scenica del sogno,
dell’ironico primitivismo di Pascali che sogna un ritorno allo stato di
natura. Sogna se stesso vestito solo di rafia come un selvaggio, sogna
Cita la scimmia di Tarzan. Sogna il suo dialetto pugliese, sogna un ponte
costruito con lana d’acciaio intrecciata, delle liane e due trappole, una
aperta e una chiusa, anch’esse di lana intrecciata. Sempre all’Attico di
Roma nel 1970 Eliseo Mattiacci realizza il “Percorso compressore e terra”,
un rito-natura primordiale, una ricerca del tempo perduto e del tempo
ritrovato attraverso la materia organica, l’elementarità, la plasticità
allo stato puro. Nicola Carrino (collezionista della prima ora di sculture
tribali) realizza cumuli di materia ed elementi primari formalmente
ripetuti con richiami al segno scalare dello Ziggurat.
Con il Neoespressionismo tedesco e la
transavanguardia italiana, tra la fine degli anni settanta e l’inizio
degli anni ottanta, nell’era di crisi del post-industrialismo e del
concetto di Modernismo, vi sarà un forte ritorno alla pittura figurativa
spesso ispirata ai segni arcaici e primordiali. Baselitz, Penck, Lupertz,
Kirkeby definiti anche “Nuovi Selvaggi”, riprendono la grande tradizione
dell’Espressionismo, fatta di colori violenti, di situazioni esistenziali
di luoghi che la pittura e la memoria rendono mitici. Cucchi, Chia,
Clemente, Paladino, De Maria vogliono essere un movimento che attraversa
tutte le avanguardie per cogliere, sottrarre, rubare da esse tutto ciò che
serve alla realizzazione delle loro immagini, pratica portata al suo
massimo grado proprio da Picasso, artista emblema del XX secolo.
Negli Stati Uniti il Graffitismo di Haring e
Basquiat segna il paesaggio urbano e metropolitano attraverso immagini
simboliche e arcaiche, tradotte e usate in termini di nuovo tribalismo.
Nell’era della globalizzazione in cui tutto viene ridotto ad un’unica
dimensione, a fronte quindi di un appiattimento delle identità culturali,
vediamo sorgere ancora atteggiamenti ed espressioni di culture spontanee
che rivendicano una originalità perduta.
Comiso, 22 settembre 2007
Massimo Di Stefano
Bibliografia:
W. RUBIN, Primitivismo nell’arte del XX
secolo, Arnoldo Mondadori, Milano, 1985.
A.MESSINA, Le muse d’oltre mare. Esotismo e
primitivismo nell’arte contemporanea, Einaudi, Torino, 1993.
J. CLIFFORD, I frutti puri impazziscono.
Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, “Gli archi” Bollati
Boringhieri, Torino 1999.
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