AFRICA, CONTINENTE DAI MILLE VOLTI
- prefazione di Marcello Lattari -
Molteplici forme di giudizio, nella storia
europea, sulla così detta “Arte Africana”, hanno rumoreggiato per far
ascoltare una propria interpretazione che il più delle volte è risultata
essere inutile e fatua nel dichiarare con l’aggettivo “primitiva” ogni
cultura estranea a quella occidentale. Nel “concetto generale” di analisi
tutto ciò è superato, ma non tutte le scorie sono state eliminate e quindi
assistiamo a dei colpi di coda che tengono in vita alcune sacche di
resistenza, per la verità, tra gli addetti ai lavori, ridimensionate di
molto.
L’elaborazione della scrittura, nella cultura occidentale, è il confine
tra la preistoria e la storia: contestiamo con forza codesto teorema,
anche se archiviato per convenzione, indicando che esiste e sussiste una
grande arte tra i “primitivi”, intesi come esseri inferiori, e tra i
“preistorici inquadrati” al di fuori della storia. Se la scrittura è un
modo di comunicare, i “segni”, oltre a ciò, diventano anche espressione
riflessa dell’emotività dello spirito naturale, non inquinato dalle mode
accademiche, conducendoci ad una valutazione del sentimento del produttore
attraverso la sua “valenza artistica” che, al contrario della scrittura,
elitaria ancora oggi, è aperta a tutti i livelli culturali. Utilizzando il
suo modo di comunicare diventato universale è con l’Arte che l’uomo usa
trascendere ogni sorta di “torre di babele”.
L’Arte non può essere una squallida e sterile, se pur perfetta, imitazione
della Natura: non deve far somigliare, deve far significare. Un manufatto,
significante, offrendosi come il concetto e l’idea del suo significato o
uno stimolo alla sua interpretazione, ha raggiunto il suo scopo ed
esaurito la sua funzione; altrimenti resta un inusuale, fascinoso ma non
affascinante, elemento decorativo in una casa “etnica” alla moda.
Lo splendido Chiostro di Voltorre ci offre la possibilità, con grande
merito di Ornella Pasini e Luigi Banfi, studiosi dei “significati
nascosti” nell’Arte Africana attraverso l’analisi della loro ammirevole
collezione di maschere, di riflettere sulla effettiva non collocazione
geografica e temporale dell’Arte, la quale, superandone i significati, non
può essere “incatenata”, neppure per convenzione, in un confine o in
un’epoca, e solo in quelli, a noi conosciuti.
Una raccolta impreziosita dal tempo e dall’amore per la ricerca
etnografica è lo splendido risultato proposto da Ornella e Luigi, nello
scenario mistico del luogo che la ospita e che ne rimarca, nella memoria,
il sapore ed il profumo di antichi e primordiali rapporti dell’uomo col
soprannaturale. L’ammirabile dedizione, nel collezionare le opere
proposte, trova origine nella minuziosa e attenta catalogazione e
collazione dell’intero corpo espositivo.
Ivi gli enunciati dell’Antropologia Culturale ed Etnografia ritrovano i
loro “testimonial” più accreditati e la storia dei popoli e delle civiltà
vi si configurano quali fedeli cantori di ere lontane dagli acceleratori
nucleari, ma ancora abbastanza vive nell’immaginario di popoli ed etnie,
nell’inarrestabile eutanasia, fra le ignorate impenetrabili foreste e
sconfinate savane africane. I rituali hanno scandito il tempo, la vita e
le stagioni dei villaggi attraverso nascite, iniziazioni, propiziazioni,
fecondità, accoppiamenti, dissensi, stati fisici, salute, morte, al di là,
spiritismo, giudizi, punizioni. Le maschere ne sono stati i principali
interpreti, messaggeri ed esecutori. Centinaia e centinaia di etnie, a
volte in naturale osmosi, hanno fornito notizie sulla loro cultura o
abilmente celato, prevenuti, misteri dei quali sarà sempre più difficile
disgelarne contenuti e finalità o soltanto proporre delle ipotesi.
Ritornano così, nella memoria, gli spiriti delle nostre ataviche e
dimenticate origini quando vagavamo fra paludi acquitrinose e gelide, con
l’unico naturale bisogno di sopravvivere. Le nostre danze volteggiavano
verso gli dei minori dai piedi bagnati ed in mezzo a noi. La sembianza
scolpita nella materia, il costume, i simboli, la danza, erano “la
maschera” e la maschera era “lo spirito”!
Tutto concorre a ritrovare l’emozione di un tempo, di un luogo, di un
rituale, ormai perduti fra rigagnoli fangosi di piogge torrenziali e le
alterne pieghe di una vita che scorre inesorabilmente; la convinzione di
poter cogliere e assaporare i testimoni di un’esistenza libera dalle ansie
delle metropoli e dei computer ed infine riscoprire, fra i “segni”, la
pietà primordiale di una mano abile, devota, timorosa ed osservante di
rigorose ancestrali tradizioni orali, e, ancora una volta, immergerci nel
valore autentico e originario della vita, della convivenza, dei perduti e
rimpianti rapporti umani.
Osservare, raccogliere, sognare……“le maschere”……appunto!
Luglio 2005
Marcello Lattari
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